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R Recensione

8/10

Ambrose Akinmusire

When The Heart Emerges Glistening

Breve premessa: il nome di Ambrose Akinmusire circola da qualche tempo nella mia testa (“colpa” di qualche lettura di troppo e di una passione mai sopita per il jazz), quando decido di recuperare – ordinandolo tramite internet - il disco in quesatione (“When The Heart Emerges Glistening”).

Il tipo è circondato da pareri entusiasti, quando non da applausi e lodi sperticate: indi deve essere bravo sul serio, mi dico.

Ecco, ora che sono trascorsi alcuni mesi dall'acquisto, posso dire di aver fatto la scelta giusta: Ambrose è un musicista con i fiocchi, ed un disco del genere oggi serve come l'aria e forse di più, rappresentando la classica opera che alimenta la nostra volontà di non accomodarsi fra i guanciali rassicuranti del passato, per andare oltre.

Ma veniamo al dunque.

Ambrose Akinmusire, classe 1982, è un trombettista originario di Oakland-Caifornia, che a dispetto della giovane età vanta già un curriculum importante: collaborazioni adolescenziali come gente come Joe Henderson o Steve Coleman (il suo padre putativo), anni trascorsi sui banchi di scuola ad assorbire musica da gente che risponde al nome di Herbie Hancock e Quincy Jones; quindi il “Thelonious Monk Institute of Jazz”, condito da concorsi e premi vari. Ed infine, la firma sul contratto Blue Note e la possibilità di incidere un lavoro in proprio (l'etichetta come noto non è propriamente generosa, sotto questo profilo: sa scegliere accuramente i collaboratori, e di solito non sbaglia), questo stupefacente “When The Heart Emerges Glistening” pubblicato lo scorso mese di aprile.

Parlo di stupore, ma forse sarebbe più appropriato parlare di una vera e propria folgorazione: perché Ambrose è trombettista raffinato e dal tocco personalissimo, che evoca tanto la solennità di un Miles Davis quanto l'energia abrasiva e lo scatto bruciante di maestri hard-bop (gli idoli Clifford Brown e Freddie Hubbard, il cui spettro si materializza a ripetizione fra i solchi dell'opera).

La sua tromba è agile, nervosa ed al contempo sottilmente elegante: disegna squarci melodici intensissimi ed estremamente vivi. La sua è comunicazione vera, è sentimento allo stato puro, distante anni luce dai fenomeni che tentano di scimmiottare i grandi del passato a forza di manierismi: qui non esiste la parola "scolastico", qui è tutto espressionismo che viene esaltato (e non svilito) dalla competenza tecnica del musicista. Qui la storia nobile del jazz rivive e viene celebrata da un artista che possiede la capacità di recitarvi un ruolo assolutamente personale ed attuale (come lui, oggi, Matana Roberts e pochissimi altri).

“Confessions to my unborn daughter” è il luogo imprescindibile dell'opera, e forse uno dei capolavori di tutto il jazz contemporaneo: è una suite brillante e nervosa nei suoi saliscendi melodici, ove si intersecano con eleganza il fraseggio (s)composto e molto Cliffordiano di Ambrose ed sax tenore di Walter Smith III.

Siamo in territori hard-bop, ma in fin dei conti è difficile parlare di uno specifico settore di riferimento, perchè la tromba di Ambrose pare omnisciente ed inafferrabile, raffinata come il cool e costipante come il free.

In ogni caso, si tratta di roba che può farti a brandelli il cuore, se ti prende nel momento giusto.

E c'è molto, molto altro: “Enya” è un'elegante suite dai toni soffusi e mistici, quasi Hancockiani, specie nei voli del pianoforte.

With Love” è classico bop che si snoda lungo territori hard fino a contorcersi in squarci eleganti e composti degni di un Lester Young.

My name is oscar” è invece il capolavoro del batterista Justin Brown: è quasi drum'n'bass che non ha bisogno dell'elettronica.

E' energia allo stato brado che scompone e ricompone ritmiche martellanti, capaci di sondare il vuoto a furia di figure geometriche sempre nuove. Il tutto mentre Ambrose recita mecanicamente “my name is oscar”, in un clima di trance surrealista che in qualche modo spezza la dimensione “classica” del lavoro.

The Walls of Lechuguilla” è fra i pezzi più sorprendenti: l'introduzione è affidata ad un lungo solo alla tromba di Ambrose, che prende spunto (al solito) da Brown ed Hubbard per sconfinare in territori quasi free, forse addirittura dalle parti di Don Cherry (il tema minimale viene giostrato fino allo sfinimento); ecco quindi che subentra un unisono tromba-sax capace di evocare i saliscendi emotivi degli orchestrali di Archie Shepp se non addirittura di Charles Mingus, prima di ritornare alla quiete introduttiva.

Tear Stained – Suicide Manifesto” è il brano più malinconico del del disco: una tenue, disperata melodia sorretta dai fiati viene lentamente adombrata da un elegantissimo fraseggio del pianoforte di Gerald Clayton, che si insinua con la timidezza aristocratica di un Bill Evans e disegna archi nel cielo con la stessa disinvoltura di un Herbie Hancock.

Una folgorazione, dicevamo: e non esito a credere che sarà lo stesso per tutti i jazzofili che si cimenterenno con il lavoro. Perché qui la grandeur del passato non è mai sopita (ed anzi si esalta nella molteplicità dei riferimenti), eppure Ambrose riesce a guardare con disinvoltura al presente ed alle nuove tendenze del jazz e della musica tutta. Riuscendo a recitare un ruolo da protagonista, sorretto da quell'ispirazione che fa la differenza fra un disco “ordinario” ed un piccolo capolavoro.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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ciccio 8/10

C Commenti

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fabfabfab alle 17:49 del 20 agosto 2011 ha scritto:

Julian il tuo approccio al jazz è unico, miracolosamente libero dai soliti snobismi... Di questo disco avevo già letto opinioni positive, ma l'avevo scartato per via della ... ehm ... copertina. Ma visto che lo consigli tu, chiuderò gli occhi e ascolterò.

Emiliano alle 16:04 del 25 settembre 2011 ha scritto:

Grazie Jules, gran bel disco e recensione inappuntabile.