Mew
+ -
I Mew sono un enigma. Senz'altro uno dei più difficili da decifrare, quantomeno nell'ultimo decennio di musica, così follemente impegnato a catalogare ogni proposta e a ricondurla fedelmente, con dedizione cervellotica, per non dire psicotica, ad altre pregresse. Di fronte a questa raison d'etre di gran parte della critica contemporanea, i danesi si pongono, sin dalle più basilari intenzioni estetiche, come una mina vagante, oggetto impossibile da identificare precisamente. Gli stessi componenti, in passato, hanno tentato più volte, con risultati tanto buffi quanto sintomatici di un'effettiva consapevolezza circa la propria creazione (alla faccia del mito dell'artista "genio per grazia ricevuta", ispirato da non precisate Muse), di catalogare se stessi. In fin dei conti, non c'è nulla di male in ciò, la cultura umana è da sempre pensata in quest'accezione, ma, per farlo, si sono dovuti inventare definizioni quantomeno fantasiose, come quella più famosa di indie band da stadio, o altre ancora. Questo perché, una volta tanto, è davvero impensabile riuscire a sintetizzare le miriadi di influenze, espedienti sonori, soluzioni tecniche che hanno forgiato lo stile della band danese se non riconoscendole come un qualcosa che dev'essere necessariamente condotto al "marchio Mew", un marchio che è riuscito ad alternare e per lo più ad amalgamare, nel corso degli anni, eterei ricami dream pop, ruvide schitarrate shoegaze, cristalline armonie pop e contorte poliritmie progressive. Lo stesso quartetto (nuovamente ricomposto, grazie al ritorno del bassista Johan Wohlert) sembra essersi definitivamente accorto di ciò e, complice anche l'età dei membri, ormai più vicini ai quaranta che ai trenta, forgia, con questo + -, il classico album della maturità, senza reinventare il proprio sound con virtuosi voli pindarici. Con ciò non si vuole asserire che l'opera in questione non provochi alcuno spostamento nell'economia dell'evoluzione della band, quanto, piuttosto, che questa si verifichi, più che nei contenuti musicali, nel modus operandi e nelle strutture dei pezzi. In breve, lungo queste 10 canzoni si rintracciano più facilmente e in maniera più definita che in passato i canonici schemi del pop: verse, chorus, bridge, middle eight, ecc., ma occhio a non interpretare tale considerazione in maniera infallibile, come un'equazione, ché, a dispetto del titolo matematico, come i predecessori anche questo album è mutevole, beffardo ed imprevedibile.
La canzone ove maggiormente si può riscontrare un certo adeguamento ai suddetti standard è senza dubbio Water Slides, secondo singolo dell'album e autentica perla, lentone capace di trasfigurare certe istanze r'n'b mainstream in un malinconico misticismo nordico, centellinando al massimo i funambolismi tecnici tanto cari al complesso (se ne conta solo uno, perfetto: il passaggio di chitarra in controtempo al minuto 1:30). Altri rimandi a queste coordinate sonore, finora piuttosto estranee all'universo Mew, sono presenti nell'evanescente (nel senso migliore del termine) Making Friends, che può vantare dalla sua un'avvolgente nube di tastiere (la produzione, in generale da applausi, ad opera di Micheal Beinhorn, fa i miracoli proprio su questo strumento in particolare) e un ottimo tiro, vagamente negroide, su cui il cantante Jonas Bierre può vocalizzare, come in un'estasi trattenuta. Anche in un pezzo tutto sommato semplice come questo, ad ogni modo, i nostri non mancano di inserire l'arrangiamento spiazzante, addirittura per fan fideizzati: l'autoplagio di Introducing Palace Players, contenuta nel precedente No More Stories..., sotto forma di chitarrina funky!
Instillare l'imprevisto laddove ci si aspetta la linearità sembra essere da sempre una delle missioni del gruppo e anche qui ci sono un manipolo di espedienti che confermano tale tendenza: i mirabolanti incastri di quel tornado di chitarre western e cori epici che è Witness, straordinaria nel condensare in appena tre minuti molte delle caratteristiche cardine della band (compresa, nel ritornello, la soluzione adottata spessissimo di doppiare linea vocale e tastiera) o il finale di The Night Believer, in cui il quartetto sceglie di sfumare in maniera bizzarra il finale denso di voci (da segnalare, qui, un delizioso cameo dell'australiana Kimbra, il cui timbro ben si amalgama con quello di Jonas), che stava deviando il corso di una canzone altrimenti piuttosto easy listening, financo un po' troppo zuccherosa. Segnatevi questo aggettivo, perché, ahimè, ciò che davvero impedisce a + - di spiccare del tutto il volo è proprio un eccesso di melassa nella proposta, probabile conseguenza negativa della maturità conseguita di cui si parlava sopra. Con l'eccezione di un paio di brani, ovvero la già citata Witness e l'energica My Complications, quasi tutti gli episodi dell'album sono midtempo (ma anche downtempo) che rischiano spesso di sciogliere la tensione, anche a causa di minutaggi eccessivi. È così che una promettente Clinging To A Bad Dream, con strofe dal piglio esotico, vagamente Egyptian Hip Hop, disperde il suo potenziale dilungandosi eccessivamente in melodie indie pop e ambient un po scontate; costrutti melodici che si ripropongono nella scialba Interview The Girls, davvero insipida. La lunga Rows, invece, forte di un coinvolgente crescendo strumentale che la potrebbe rendere una sorta Comforting Sounds 2.0, si lascia scivolare in un finale stucchevole, tronfio ed eccessivamente fitto di sovraincisioni vocali. Quando però la melassa si trasforma in sentimento, il risultato è grandioso: così è lo struggente finale Cross The River On Your Own, cioè la canzone che i Pink Floyd post-Waters avrebbero voluto essere anche solo lontanamente in grado di scrivere.
Un album di alti e bassi, dunque (o di + e -, scimmiottandone la denominazione), più di transizione che di consolidamento, che tenta di unire e al tempo stesso andare oltre a tutto ciò che la band è stata finora, abbandonandone le istanze più magniloquenti da arena e abbracciandone maggiormente la linea introspettiva, ma che non sempre è capace di centrare lobiettivo con la magnifica brillantezza a cui siamo stati abituati, specie da Frengers in poi.
Tuttavia, come in ogni enigma che si rispetti, giungere ad una soluzione, in questo caso ad una sintesi univoca di giudizio, non è così semplice come sembra; infatti, ad aprire lopera cè quella che, forse, è la miglior canzone mai scritta dai danesi, ovvero Satellites. Trattasi di una romanza ermetica e nostalgica, piena di ogni sorta di raffinatezze tecniche (la batteria che sorregge il tempo in maniera intricatissima, producendosi in continui mini-assolo, le scintillanti e mai dome chitarre, i ricami di arpe e di tastiere, la voce angelica di Jonas, che sembra essersi fermata al 1997) e armonico-compositive (questa volta è davvero arduo definire precisamente la struttura del pezzo, che reitera per praticamente tutti i suoi 6 minuti di durata sempre gli stessi due cicli di accordi, innestandoci sopra di volta in volta melodie differenti), commovente canto pregno di misticismo, simulacro prezioso ricolmo di melodie senza tempo, che si librano altissime, incontaminate, nella stratosfera, per depositarsi, infine, nel cuore dellascoltatore, se questi non è totalmente sprovvisto, chiaramente.
And Id rather be a satellite
And Im picking up the phone.
Tweet