Duran Duran
Rio
Sole, spiagge dorate e donne bellissime. Natura selvaggia, scogliere marmoree e ancora donne bellissime. Non può che essere stata linvidia a far sì che il complesso più famoso della storia di Birningham sia stato impietosamente screditato per oltre una decade da tutta una frangia della critica musicale più oltranzista e paladina di presunti valori indie o alternativi di sorta. Perché, diciamocela tutta, quando noi aspiranti popstar abbiamo iniziato a suonare nelle nostre cantine con altri due-tre-quattro spostati, il nostro obiettivo ultimo non era certo fare arte. E nemmeno erano le scogliere marmoree. La storia dei Duran Duran non è diversa da quella di migliaia e migliaia di band che si sono formate qua e là per il globo: due ragazzi, amici sin dalladolescenza, Nick Rhodes (vero nome Bates) e John Taylor, decidono di mettere su un gruppo e per crearlo uniscono le forze con un altro Taylor, Roger, e poi ancora un altro Taylor, Andy. Infine trovano un cantante che si presenta alla prima prova del gruppo con addosso un paio di pantaloni da sci stretti e lepoardati, con lacci sotto gli stivali (testuale dallautobiografia di John Taylor). Sì, ok, forse non è una storia esattamente uguale a quella di tante altre, ma non è questo laspetto più importante; quel che conta è che i Duran sono stati un gruppo di matrice indipendente, non certo un manipolo di bei faccini messi assieme da abili manager, come certa discultura tremendamente difficile da estirpare presso lopinione comune li vorrebbe. Che poi la missione del quintetto fosse creare musica pop, normalizzando certe istanze dellavanguardia new wave imperante allinizio degli anni 80, su questo non ci piove, ma nemmeno la qual cosa può, a prescindere, rappresentare una colpa. Tanto più quando il risultato è stato quello di creare musica di gran classe, destinata a segnare limmaginario collettivo globale, non soltanto in termini di sovraesposizione mediatica, ma soprattutto di lascito artistico (chiedete, tra gli innumerevoli, ai Blur di Girls&Boys, se non è così).
C'è da dire che, fortunatamente, una buona fetta di critica, nel suo instancabile processo di rivalutazione selvaggia di un decennio, gli anni '80, troppo spesso vituperato (processo invero eccessivamente massivo e spesso privo di buon senso), sembra aver compreso il valore dei birninghamiani o per lo meno quello di alcuni loro dischi. Su un album in particolare tutti si trovano daccordo negli elogi e questo è, appunto, Rio, il disco del sole, delle spiagge dorate, ecc. E vorrei anche vedere come si possa, nel 2015, ostinarsi a non cogliere la grandezza di un simile LP, pieno comè di canzoni splendide e suonato divinamente, con grande perizia tecnica (pure i riccardoni sono accontentati, che si vuole di più?). Appunto, per cominciare ad analizzare il long playing in questione, mi interessa soffermarmi sulla coesione e le caratteristiche di un ensemble di musicisti abili e capaci come non molti all'epoca, esattamente come i componenti delle principali altre formazioni new romantic, quali Japan, Simple Minds, A Flock Of Seagulls, ecc. e che già aveva dimostrato le sue innate abilità strumentali e melodiche nell'omonimo debutto del 1981, forte di almeno due inni del pop inglese tutto, Girls on film e Planet Earth. Innanzitutto abbiamo un batterista che è, al contempo, una macchina da guerra e una drum machine: trattasi di Roger Taylor, capace di sostenere pattern molto fisici, tirati e talvolta abbastanza complessi, anche per minuti e minuti; è risaputo, infatti, come le tracce di batteria da lui suonate per garantire agli altri una base su cui improvvisare, si protraessero quasi tutte per circa una decina di minuti e mai che lo si sentisse andare fuori dal clic! Oltre alla batteria metronomica, l'altra componente più smaccatamente wave risiede senz'altro nelle tastiere di Rhodes, ammaliato più di tutti dall'estetismo dandy che imperava in quegli anni (e in particolare dalla figura di David Sylvian) e raffinato selezionatore di suoni e timbri, fondamentale collante di un complesso dominato da prime donne. Quello che, però, smarca i Duran dal resto dei new romantic e, probabilmente, anche ciò che ne ha determinato il successo stratosferico, è una non troppo sopita componente hard rock da arena, che si palesa innanzitutto nel chitarrista Andy Taylor, lui sì, musicista più a suo agio con l'heavy metal che con sequencer ed alienazioni metropolitane di sorta, il quale riuscì, tuttavia, nei suoi pochi anni di militanza, ad integrarsi egregiamente in un complesso di tutt'altre coordinate sonore, fornendo corpo e grezzezza ai raffinati costrutti degli altri. L'altro "hard rocker" è il carismatico frontman Simon Le Bon. Definizione che va presa con le pinze, in quanto il biondo cantante non è affatto un roco urlatore alla Bon Scott, anzi, è perfettamente in grado di gestire una vocalità baritonale, tipica di molti suoi colleghi dell'epoca, ma a differenza di questi, anche di sostenere tonalità molto acute a voce piena, il più delle volte senza i raffinati vibrati dei vari Ure, Oakley, McCulloch, ecc., ma, bensì, con la grinta di cantanti più legati al classic rock. Al di sopra (o al di sotto, dipende dalle preferenze) di tutti si staglia il divino John Taylor, bassista tra i migliori in un'epoca in cui il basso era, insieme ai synth, lo strumento principe del rock pop. Il "rivale di copertine" di Le Bon dimostra, in special modo tra i solchi di questi nove brani, una personalità e una versatilità mostruose, oltre che una tecnica sopraffina. In soldoni il suo stile è fortemente debitore di quello di Bernard Edwards degli Chic, ma a differenza di questi, quel che ne viene fuori non è un groove "rotondo" e godereccio, ma una sferzante sequenza di note aggressiva e trascinante, al tempo stesso in linea con e a capo di tutto il resto della proposta musicale. Davvero si potrebbe apprezzare Rio anche solo per le invenzioni di questo bassista incredibile, che riesce, oltretutto, ad avere senso della misura e a non interpretare il suo ruolo in maniera eccessivamente protagonistica e totalizzante. Si ascolti nel ritornello di Hungry Like The Wolf, per esempio, come riesca ad inserire quei due-tre colpi di slap decisivi per fornire il giusto tiro ad una melodia già bellissima ed immediata di suo; in Hold Back The Rain, poi, è grande protagonista, nelle strofe a puntellare ficcanti riff sincopati e a prodursi in esaltanti cavalcate a colpi di plettro nei ritornelli; ancora, il ragazzo sale in cattedra nella meravigliosa e non troppo conosciuta Last Chance On The Stairway, in cui è una scheggia impazzita e iper dinamica, ma sempre dotata di grande lucidità e senso della misura: al servizio della canzone, insomma, e non dello strumento.
Essendo questa, ad ogni modo, una recensione sui Duran Duran e non sul solo J. Taylor, è giusto, a questo punto, soffermarsi sul songwriting, sugli arrangiamenti e sulla produzione in generale. Quest'ultima è affidata al produttore di culto new wave Colin Thurston, che nell82 aveva già lavorato con Magazine e Human League, il quale fornisce la giusta lascivia e perdizione sensuale vagamente psicotica tipica di molti dischi dell'epoca a canzoni in apparenza molto leggere. Ecco, le canzoni, il nodo centrale di un qualunque disco di pop music, come sono in Rio? Ovviamente splendide, dalla lussureggiante title track alla sinistra The Chaffeur e piene di più o meno esplicite raffinatezze sonore e compositive. Introdotta da uno spettrale suono di pianoforte rovesciato, Rio comincia sugli scudi, sincopata e dissonante, con violente pennate di elettrica. Nulla farebbe presagire all'esplosione di vitalità del ritornello, magistralmente lanciato dai sequencer di Rhodes. Anche grazie allo splendido solo di sax del bridge e ai vocalizzi finali suggellati dall'accumulo di grandeur dell'apparato strumentale, si può definire questa canzone il manifesto dell'album e, forse, anche della stessa band. Seguono a ruota My Own Way, forte di una produzione molto potente e decisa (si ascolti l'aggressività del rullante) e la più delicata Lonely In Your Nightmare. Tra gli highlights della scaletta, spicca senz'altro New Religion, probabilmente il pezzo tecnicamente più variegato e complesso (davvero, roba quasi da gruppo prog): dopo un avvio condotto da metafisici pad floydiani, la canzone si regge su un loop funkettaro della sezione ritmica, su cui Le Bon può mostrare tutto il suo carisma vocale. Infatti, al netto delle molte finezze e dei tecnicismi (su tutti, le indiavolate sincopi di John e Roger Taylor nel bridge), il vero protagonista della canzone è proprio il biondo frontman, che è qui mattatore eclettico ed instancabile: parte baritonale e composto, per poi rappare, raggiungere tonalità impervie (tra il minuto 4:24 e il 4:54 anche tutto assieme, in più sovrapposizioni), ma senza mai perdere classe e aplomb, un po' come il pezzo nel suo insieme, che, nonostante latrusità tecnica, scorre sempre fluido e orecchiabile. Il finale di album regala probabilmente le due perle più fulgide: una è la celeberrima ballata Save A Prayer, su cui non intendo dilungarmi perché davvero è patrimonio comune. Segnalo soltanto, oltre all'accorato testo (un inno alla bellezza e la profondità che l'amore riveste, anche qualora esso venga consumato in maniera fugace, come un'irripetibile one night stand), come gli arpeggiatori sontuosi che introducono il pezzo siano diventati un suono pre set dell'ultimo modello di sintetizzatori micro korg, giusto per dare un'idea di quanto abbiano fatto epoca. La seconda di queste perle è la mesmerica e decadente The Chaffeur, pezzo in cui la parte del leone è interpretata dal diversamente refrattario alle luci della ribalta Nick Rhodes. Introdotta da sinistre note di synth e da un inquietante pianoforte flangerato, la canzone è puro synth pop almeno fino allinizio della seconda strofa, quando si inserisce, stavolta in punta di piedi, John Taylor ed è continuamente impreziosita dagli splendidi ricami intessuti da Rhodes (come scordarsi il temino di flauti sintetici che domina il finale?) e da un grandissimo Roger Taylor, robotica macchina, in grado però di fornire groove e trasporto a una canzone altrimenti molto rigida, senza peraltro dover strafare. Su tutto questo popo di base, Le Bon si produce in uninterpretazione sontuosa e, questa volta, davvero in linea con il dannatismo distaccato tipico di molti tra i migliori cantanti del periodo.
Insomma, come si sarà capito leggendo queste righe e, soprattutto, ascoltandolo più volte, forse la descrizione perfetta per Rio non è esattamente quella di un disco frivolo, o meglio, sì, Rio è un disco frivolo, puro estetismo applicato al lato più pop della new wave, ma quanta grazia, quanta perizia strumentale e quanto accorato struggimento può provocare il lasciarsi andare allimmediatezza emozionale più anti intellettualistica? La risposta è scritta in questi 42 minuti e 38 che cristallizzarono lestetica e il suono degli anni 80 come poche altre opere.
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