Depeche Mode
Violator
Im waiting for the night to fall
I know that it would save us all
When everythings dark
Keeps us from the stark
reality
Rose Bowl, Pasadena, 18 Giugno 1988. Il mondo, sotto forma di 60.000 fan scalmanati, questa sera è ai tuoi piedi se ti chiami Dave Gahan, se il tuo sogno è sempre stato quello di diventare qualcuno, quando da ragazzo altro non eri che un teppistello come tanti, rassegnato ad unesistenza mediocre nella più squallida monotonia della provincia inglese. Scuoti le braccia animosamente, allincedere forsennato dell electro anthem più riuscito nella carriera della tua band, senza poter scorgere la platea, annichilita nelloscurità, quando, allimprovviso, in perfetta sincronia con laprirsi celestiale della canzone, una marea di persone, come un immenso campo di grano scosso dal vento, si palesa sotto i riflettori e si unisce a te, in quello scomposto e liberatorio movimento. Non scoppiare in lacrime, a questo punto, sarebbe semplicemente stupido.
Nella fattispecie, la canzone in questione è Never Let Me Down Again, opener di Music For The Masses, capolavoro oscuro e tormentato, forse sempre un pelo sottovalutato nel giudizio sullopus dei Depeche Mode. Ad ogni modo, il gruppo che, alle porte del nuovo decennio, si appresta a dare alle stampe il suo manifesto artistico, si ritrova, dopo anni di dura gavetta, passati a doversi difendere da una stampa (in special modo britannica) mai molto amica, per usare un eufemismo, e a macinare concerti su concerti per affermare la propria identità ed ottenere consensi, come una vera proposta underground, alla faccia di chi li tacciava di essere uneffimera chimera per teenager sfigati, a dover affrontare il peso di un successo che, per quanto cercato con ostinazione, non era preparata a gestire, in una portata così imponente. Non è ancora, tuttavia, giunto il tempo della dissoluzione più selvaggia (sebbene i quattro si fossero dimostrati tuttaltro che dei santarellini già negli anni precedenti ), quanto piuttosto quello di compiere la scalata verso la propria consacrazione, estetica e commerciale.
Aperto, nellAgosto dell89, dal singolo-bomba Personal Jesus, Violator si pone come il coronamento dei massimi eredi dei Kraftwerk, anche nel loro peculiare metodo di lavorazione: infatti, i quattro di Basildon non hanno mai funzionato come i classici gruppi pop-rock, ma piuttosto come una cooperativa, allinterno della quale ognuno dei membri si ritagliava il proprio rispettivo compito. Martin Gore si occupava del songwriting, Alan Wilder della produzione (ed innumerevoli altri aspetti; in buona sostanza, quasi tutto il lavoro sporco toccava a lui), Dave Gahan delle parti vocali ed Andrew Fletcher di aspetti manageriali (il sospetto, più che forte e comprovato da parecchie fonti, è che non facesse praticamente un cazzo). In particolare i primi due qui ottengono alcuni dei loro più strabilianti risultati: Gore azzeccando nove pezzi che se anche venissero suonati con chitarra acustica e armonica sarebbero ugualmente superbi (guardare alla voce Johnny Cash per credere) e Wilder, con lausilio dellastro nascente Flood, trasformando le demo del riccioluto chitarrista, volutamente lasciate basilari come mai prima, in martellanti caleidoscopi elettronici, sinuosi e sensuali, pur nella loro glacialità, attraverso una lavorazione in studio cervellotica ed una stratificazione sonora che ha del maniacale, senza che tutto ciò, però, andasse ad inficiare lestrema fluidità e naturalezza dellalbum. Come da numerose interviste asserito, lobiettivo del duo era quello di permettere una compenetrazione totale tra elettronica e strumenti suonati (principalmente chitarre), talmente capillare da non permettere quasi di distinguere dove iniziasse il lavoro del computer e dove finisse lintervento del musicista. La missione si può dire totalmente riuscita, nonostante Violator non sia lalbum più umano dei Depeche Mode, anzi, è quello che più di tutti detta gli standard per la dance e la house degli anni a venire; tuttavia, lo fa in una maniera algida e distaccata, senza rinunciare ad una passionalità molto romantica, aggiornando decisamente i suoni grassi della italo disco o quelli spigolosi della Detroit techno, per mirare ad una purezza elettronica definitiva, che suona sorprendentemente attuale ancora oggi (nessun altro disco della band ha retto meglio la prova del tempo, sotto questaspetto).
Ma, in definitiva, al netto di sound e tecniche di produzione, ciò che rende grande unopera musicale sono, sempre, inevitabilmente, la canzoni e qui, come già si diceva in precedenza, qui si raggiunge il livello delleccellenza, o meglio, della perfezione più dolce. I nove pezzi si districano tra umori synth pop, dark e blues, perfezionando e cristallizzando la tipica formula goriana, fatta di giri di accordi in minore (è interessante notare come, dagli anni 80 ad oggi, ci sia stata unevoluzione delle tonalità delle hit single di successo mainstream, passate sempre più massicciamente da scale maggiori a minori; che centri linfluenza dei nostri?), brevi frasi vocali cadenzate ed interpretate splendidamente da un ottimo Dave Gahan (che però darà il meglio di sé allapice del degrado, nel successivo Songs Of Faith And Devotion), incastri minimalisti di synth, alternati a riff chitarristici ora bluesy, ora new wave. Il songwriting del folletto biondo è talmente peculiare da aver fatto scuola: una sorta di mix tra gli immancabili Kraftwerk, il dandismo decadente dei Japan, le febbrili palpitazioni techno di matrice New Order e le spirali dark di complessi come Cure o Dead Can Dance. Questi possono essere i principali riferimenti, ma farne la somma non vi porterà a definire lessenza di questi pezzi, nobilitati da dei testi che, seppur non dotati di una cifra stilistica eccelsa, fanno della capacità di sintesi e dellimmediatezza la propria arma vincente.
In ultima istanza, è indispensabile analizzare nel dettaglio almeno tre dei frammenti di un album talmente ben costruito, da poter essere apprezzato e goduto sia tutto dun fiato, sia ascoltandone le componenti singolarmente.
Una di queste è la già menzionata Personal Jesus, celeberrima e coverizzata da centinaia di personaggi più o meno illustri da 23 anni a questa parte. Per quanto la scelta sia scontata, è impossibile prescindere da questo assoluto capolavoro dellarte pop: frammento musicale in cui coesistono, attraverso ardite sovrapposizioni collagistiche, elementi provenienti da linguaggi ed idiomi completamente differenti e distanti, quali sono il blues del leggendario main riff e la techno-house, senza che si avverta lo scarto stilistico intercorrente tra di essi. Il testo, poi, è unispirata ricerca di una spiritualità, più terrena che trascendente, attuabile tramite labbandono di sé ad un proprio Gesù personale, ovvero una persona che ci completi e ci dia la forza necessaria per superare anche i più insidiosi ostacoli che la vita ci pone dinnanzi. Semplicemente geniale il mantra: Reach out and touch faith, capace di racchiudere in cinque parole un mondo intero di significati ed allusioni.
Come non soffermarsi poi, in modo altrettanto banale, su Enjoy The Silence, brano cardine della poetica e dellestetica dei Moda Svelta? Ascoltando la demo portata da Gore a Wilder si capisce quanto il ruolo di questultimo nel forgiare a fuoco il sound della band sia stato largamente sottostimato nel corso degli anni: quella che era una tenue ballata per voce e armonium diventa un maestoso inno dance, che eleva la dance stessa su territori difficilmente raggiunti da altri, predecessori o successori che siano, trasponendola su un piano di struggimento contemplativo assolutamente estraneo alla corporeità molto fisica che, solitamente, la contraddistingue. Ciò si attua non soltanto grazie ad un altra bellissima lirica, elogio del silenzio e della meditazione come tramite per una conoscenza superiore, ma soprattutto grazie al contrasto tra unarmonia celestiale e una base vorticosa, ossessiva e ballabile; si tocca il cielo con un dito quando, nel finale, sinseriscono anche i fiati sintetici. Come ottenere la trascendenza mistica in un night club, questa potrebbe essere la definizione di Enjoy The Silence.
Infine, ritengo doveroso citare un gioiello nascosto, occultato ai più, che però si assesta tranquillamente sul livello dei due classici di cui sopra, ovvero Waiting For The Night. Ballata sintetica che nulla ha da invidiare ai maestri degli anni 70, quali Cluster, Eno, Jarre, ecc., essa si pone come puro distillato di filosofia dark, nel suo elogiare loscurità, la notte, vista come rifugio dall atroce noia e dalla quieta disperazione che quotidianamente ci affliggono. Il tutto senza che, liricamente, ci si lasci andare a sterili autocommiserazioni, anzi, le parole, assecondando le volute circolari, inizialmente impalpabili, ma via via sempre più presenti, dei sintetizzatori, sono ieratiche, anche qui contemplative ed essenziali. E impossibile non farsi rapire da questo autentico viaggio, che scorre sottopelle e non esce più, anche grazie alle splendide armonizzazioni tra le voci dei due leader, Gahan e Gore (un cantante fatto e finito, anche più intonato del suo sodale).
1411 parole. Tante ne ho utilizzate per commentare questo Violator, altrettante ne aggiungerei, ma ancora non sarebbero sufficienti per descrivere la magia che pervade questopera darte, frutto di determinate circostanze, di ispirazioni, di sinergie irripetibili, che, infatti, non si ripeteranno; monumento del synth pop, o, meglio, del pop tutto, raro esempio di incontro tra fulgore artistico e successo di massa. Ma, in fondo, sarebbe unaspirazione del tutto futile, lo sa bene anche il nostro Martin,
Words are very unnecessary
They can only do harm.
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