The Last Shadow Puppets
Everything You've Come to Expect
Dopo aver pubblicato sei album e un EP in sette anni, essere stato quasi costantemente in tour, ed essersi consacrato come l'unica, vera, rockstar dei nostri giorni in seguito al ciclone discografico AM (con buona pace dei numerosi ed indefessi fan della prima ora, il lascito artistico più influente e rappresentativo degli Arctic Monkeys), il fu ciuffo rockabilly Alex Turner ha deciso di tirare un po' il freno, e godersi il successo in tranquillità nella città adottiva, Los Angeles (quanto accostare tranquillità e Los Angeles possa essere ossimorico, è lasciato alla speculazione del lettore). Ecco quindi un 2015 di allontanamento dai riflettori, passato per lo più in compagnia del migliore amico Miles Kane, che deve averlo convinto a rispolverare il plurilodato progetto Last Shadow Puppets, la meteora lennon-maccartneiana nella fascinazione di look, ma profondamente scottwalkeriana nell'anima, che fece breccia spiazzando critica e pubblico, nell'ormai lontano 2008. Tutti contenti, The Age Of Understatement ci aveva fatto proprio innamorare come tubanti quattordicenni sessantottini, ma la domanda è: che esigenza può avere rispolverare un act con quei valori estetici, ora che lo stesso Turner ha esplorato molto a fondo la sua anima da crooner, soprattutto tra Suck It And See e il già citato AM (con risultati, peraltro, non di poco superiori a quelli sì interessanti, ma un poco naive, ottenuti nel 2008)? Ecco la risposta: Everything You've Come To Expect è, in un certo senso, sia pienamente attinente al suo titolo che il suo contrario. Se, ad ascoltarlo a fondo, infatti, si possono trovare molte assonanze col percorso turneriano e kaneiano (e come potrebbe essere altrimenti?), la prima impressione è quella di un album tanto breve quanto instabile, costantemente impegnato a cambiare coordinate stilistiche. Quel che sicuramente manca in via generale è l'urgenza espressiva, ma, si fidi il lettore più oltranzistamente rockista, abbandonando questo totem dall'analisi musicale si vive meglio, si migliora la diuresi, e si può arrivare a notare come, anche in un disco rilassato e apparentemente manierista come questo, ci siano molti elementi di sorpresa. The Element Of Surprise, appunto, ci presenta un Turner funkeggiante più che mai, intento ad ansimare languido mentre la sua elettrica tratteggia sincopi a-là Niles Rodgers sinora mai sperimentate. Lasciato da parte il santino di Scott Walker, il duo amplia di molto lo spettro delle influenze: apre le danze il bel singolo Aviation, ficcante melò che azzarda un matrimonio tra Neil Hannon e Lana Del Rey, ma si possono trovare anche la grazia melodica della tenera Miracle Aligner, forte di un bellissimo arrangiamento fatto di chitarre western e sognante organo Hammond, inesplorati afflati soul, presenti in maniera massiccia nella mayfieldiana e sensuale Dracula Teeth e nella linea vocale dell'obliqua title track (dotata di un progressione armonica davvero insolita, giocata quasi esclusivamente su accordi in minore o settime maggiorate), nonchè venature psichedeliche memori delle desertiche scorribande di Humbug (penso alle atmosfere da trip di Used To Be My Girl). Il rischio di un guazzabuglio eclettico ma incoerente è sventato dal salvifico apporto del fido Owen Pallett agli onnipresenti arrangiamenti orchestrali, così azzeccati da riuscire persino ad esaltare almeno un paio di canzoni dalla scrittura non così eccelsa. Il riferimento è a due episodi prevalentemente ad opera di Miles Kane, ovvero Pattern, che se non si dimostra una copia un po' sbiadita della Knee Socks firmata dal sodale tre anni fa è soprattutto grazie alle volute di archi che attaccano al minuto 2:00, e Bad Habits, canzone da spy movie con un songwriting elementare, per usare un eufemismo, ma caricata a tal punto di una perversa lascivia per merito delle gainsbourgiane dissonanze degli archi e dei possenti accordi di pianoforte, da aprire uno scenario quasi inedito all'interno del chamber pop. Se la prima parte del lavoro scorre splendidamente, leggera e senza intoppi, ma lasciando presagire ad un successivo approfondimento, quello che lascia un po' di amaro in bocca è una seconda sezione vagamente incompiuta, di cui l'emblema è forse Sweet Dreams, TN, interessante esperimento simil-girl group e approdo di maturità vocale per Alex Turner, che però si trascina troppo lungamente prima di giungere al bel crescendo finale. Insomma, questa canzone come altre potranno magari servire al nostro come spunti da sviluppare in una futura carriera solista, dal momento che le Scimmie Artiche paiono non essere proprio più nei suoi piani. Tuttavia, il riscatto per il finale di album arriva proprio nella traccia conclusiva, forse la più bella e struggente, nonchè possibile manifesto turneriano, ovvero The Dream Synopsis. Trattasi di un'elegante ballad dai tratti ormai peculiari del suo autore, più pianistica del solito, impreziosita dal bellissimo testo, teatro onirico in cui si esibiscono passioni sentimentali, il centro città di Sheffield immerso nei ricordi, tormenti (I get a feeling/I star running/Don't know why I start running/I never really know why I start running/'till I get caught), giochi metalinguistici (It was you and me and Miles Kane/And some kid I went to school with), il tutto mescolato e unito da quello stordente senso di smarrimento tipico del sogno ed enfatizzato da un cantato dolce, ma incalzante, quasi senza pause.
Con un'autocommiserazione conclusiva: Isn't it boring when I talk about my dreams?, chiede il neo-trentenne Turner, non si sa se rivolgendosi alla sua ultima fiamma o a noi, il suo pubblico. Ma non m' inganni, caro Alex, la risposta la sai anche tu: continua a sognare, e a tediarci con le tue visioni, son dieci anni ormai che non possiamo farne a meno.
Tweet