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R Recensione

6,5/10

Omar Souleyman

Wenu Wenu

Omar il siriano, Omar con la kefiah e gli occhialoni, Omar il cantante per matrimoni e battesimi, Omar il neomelodico arabo (ma non ditelo a Gigi D’Alessio, o il solo pronunciare il nome “raki” potrebbe farlo sballare), Omar il muto, il silenzioso, il neutro, l’impenetrabile, Omar la vittima di un subdolo post-colonialismo occidentale perpetrato da europei smaniosi per il “diverso” o, chissà, dal tunnel del music business vorace di nuove mode, Omar il sostenitore patriottico di Baššār Ḥāfiẓ al-Asad, Omar la marionetta nelle mani di Kieran Hebden, anzi, di Mark Gergis, anzi, di Björk, anzi, di chissà chi, Omar il cinquantenne che diventa famoso per il suo indiscutibile istrionismo, o per la oculata campagna mediatica della Sublime Frequencies, o per il bisogno di distinguersi dalla massa, Omar il truzzo di mezza età che canticchia improponibili testi flessi in articolati orientalismi di quart’ordine, come una giostra techno impazzita, o dabke stereotipata ad uso e consumo di chi non sa e non vuol sapere, ma sempre vuole avere un esempio sotto il naso.

Dal nulla Omar Souleyman, simbolo dei modern times, spunta da Ra's al-'Ayn, posto di confine dimenticato dall’uomo e da Allah, e nel nulla predica, scatena le danze, si arrocca dentro l’inespugnabile fortino del non detto (garanzia infallibile e conditio sine qua non per far parlare di sé). La glasnost’ portò, negli anni che furono, inevitabile curiosità per quello che succedeva – anche musicalmente: ricordate i Kino? – aldilà di una cortina ormai solo metaforica: toccò poi all’Africa sopportare intere annate di passivo revivalismo agghindato all’occidentale (per cui “africano” è un aggettivo cromatico, un variopinto orpello da indossarsi o dismettere a seconda delle esigenze, e non uno stato mentale, una condizione perdurante). Ci voleva una dilaniante, fosca guerra civile per far risorgere la passione del vicino Oriente e, con essa, tutti i peggiori cliché. Souleyman canta dall’inizio degli anni ’90, ma raramente è uscito fuori dalla propria regione, e mai in contesti apertamente pubblici (leggasi, concerti): solo grazie ad una catena di fortuite coincidenze – o forse no – la sua fama è rapidamente cresciuta nell’ultimo quinquennio, sino a sfociare in compilation random di brani estratti da scalcagnate tape pirata pubblicate, con sprezzo del rischio, da Sublime Frequencies. È l’inizio della consacrazione, la punta nota di un iceberg sommerso su cui già ci si comincia ad interrogare, e pur tuttavia ancora ampiamente sconosciuto. Tant’è che il primo disco “ufficiale” di Omar, non una mista compilata arbitrariamente da terzi, ma un lavoro unitario che porta la sua firma e licenziato da una grossa etichetta (la Ribbon Music, costola della Domino), viene prodotto dal guru dell’elettronica sottilmente creativa e progressivamente nazionalpopolare: Four Tet.

I confini della parola “dabke”, termine con il quale viene designato il peculiare stile di Souleyman, sono quantomeno difficili da delimitare, se è vero che, in prima istanza, si definisce dabke una danza mista, eseguita in orizzontale, da destra a sinistra, molto diffusa nella zona del Levante e nelle aree turcizzate della Bosnia – si tenga presente, a margine, l’alternanza e la conflittualità con un altro tipo di danza autoctona, circolare e propiziatrice, il kolo: se avete presente le scene di quotidianità paesana, immerse nella natura georgiana, del “Demon” di Lermontov, sapete dove stiamo andando a parare. Altrove si parla di commistioni col raï algerino, con l’adani yemenita, addirittura di jihadi techno. Vi siano o meno lettori siriani tra di noi, è evidente che adeguati metri di paragone – salvo approfondimenti specifici da rimandare, se il tempo lo consentirà, ad un prossimo futuro – non possono che mancare. “Wenu Wenu” lo si giudica per il più classico principio di opposizione, ciò che Todorov chiamerebbe riconoscimento come altro da sé: una baracconata, una chiassata, una bestia rara, un affascinante spaccato di mondo “altro”, una babele di barbarismi (Omar ne usa, simbolicamente, tre: arabo, turco e curdo). Difficile non sentirsi strattonati da una parte o dall’altra, inclini alla bocciatura aprioristica, all’insensata esaltazione o, peggio ancora, alla neutrale aurea mediocritas come panacea di tutti i mali. Il compito diviene ancora più arduo e difficile, considerando come Hebden non intervenga sostanzialmente sul substrato musicale, limitandosi a spuntare gli angoli più porosi e a livellare i suoni, modellandoli sulle litanie nasali dell’attore principale (scelta, questa, infelice). A questo punto ci si deve necessariamente schierare: come giudicare una tracklist che presenta in un colpo gli svolazzi sintetici di “Khattaba” e i martelli insistiti di “Yagbuni”?

Una risposta, caro Marco, potrebbe essere l’astensione. È l’ultima moda: non decido, non voto, non mi schiero, ma mi riservo il diritto di scendere in piazza e protestare contro quello che ho lasciato decidere ad altri. Il fatto è che questo disco potrebbe non accontentare nessuno: chi aveva apprezzato Souleyman nelle (volutamente, dicono) grezze registrazioni della Sublime Frequencies storcerà il naso di fronte al sottile lavoro di “pulizia” effettuato da Mr. Four Tet; chi invece non sopportava quel “sapore di Jihad” dato dalla voce e dai ritmi marziali di “Highway To Hassake” o “Jazeera Night”, si terrà ben distante anche da “Wenu Wenu”. Questo perché la musica, intesa come susseguirsi di ritmi e melodie, è rimasta la stessa: danze a ritmo dabke, influenze del raï marocchino, pop al petrolio e vocali aspirate. È rimasto uguale anche il comprimario principale, quel Rizan Sa’id che svisa come un pazzo su quei tastieroni anni ’80, costituendo l’unica alternativa melodica all’incalzare dei ritmi “beat e voce”. Nonostante questa apparente fedeltà, che rende il lavoro di Kieran Hebden meno “vandalico” di quello svolto – ad esempio – da Dan Auerbach sul recente disco di Bombino, è difficile non sospettare che l’effetto “disco” in brani come ”Wenu Wenu” e “Nahy” sia una mossa strategica, così come il video del singolo “Warni Warni”, con il povero Omar photoshoppato male nei quattro angoli del mondo, neanche fosse il personaggio buffo di un cartone animato. Per questo, sebbene l’handclapping di “Khattaba” e l’arabic-dub di “Mawal Jamar” siano momenti meravigliosi, rimane il dubbio che dietro ci siano una serie di volponi che hanno strappato uno straordinario artista “di strada” (e quindi credibile al di là delle tentazioni “etnomusicologhe”) dal suo habitat per farne un fenomeno da baraccone, un freak apprezzato più per la sua particolarità (che prima era “normalità”) che per i contenuti. E poco importa se il nuovo management sostiene che questo sia il vero Omar Souleyman (e che i brani registrati per Mark Gergis e la sua cricca fossero volutamente “sporcati”) o che alcuni commentatori siriani su YouTube mettano in guardia da una musica che loro stessi considerano “ridicola” (perché da noi Gigi D’Alessio non è ridicolo?). La sola domanda che davvero merita una risposta è “era meglio prima?”.

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