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R Recensione

8/10

BLK JKS

After Robots

Chitarra in una mano e tromba nell’altra, crocifiggendo l’apartheid musicale.  

I BLK JKS sono in quattro e vengono dal Sudafrica. Fareste bene a fissare nella mente, se non il loro nome – battagliero, secco, crepitante, onomatopeico alla stregua dei più combattivi avamposti delle Pantere Nere – almeno quello del loro esordio. “After Robots” è il suono della prossima sfida con voi stessi, pane per denti mai paghi di novità e che ora, davvero, potrebbero cedere pericolosamente sotto queste raffiche iconoclaste. Amano l’hard rock e la musica etnica, il prog-core e il reggae, il funk e il metal. Verrebbe da chiedersi cosa, effettivamente, ci sia di nuovo in tale eclettismo, spesso sbandierato da molti ma padroneggiato da assai pochi. La risposta è chiara: nove pezzi che, guardando in avanti – e non indietro, come vorrebbe il disco –, evitano il citazionismo fine a sé stesso e sagomano, con tratti nervosi e spezzettati, un nuovo genere: quello della globalizzazione in atto.  

Amare l’Astrattismo, giacché il solo pensiero di rappresentare qualcosa così com’è presuppone uno sforzo di immaginazione e, al netto del risultato, un’inevitabile reinterpretazione dell’oggetto realmente nello spazio, è insito nella natura umana. Meno scontato (ma anche no) è cercare di attribuire un senso a ciò che si vuole fissare su tela e, quindi, di poter portare avanti con efficacia una sensata esplorazione soggettistica. Lo stile dei BLK JKS, nel fluviale andirivieni di influenze e baratti, assomiglia perciò più ad un Seurat che a un Kandinskij, ad un insieme che funziona non grazie ad un’anarchia lucida e ragionata, quanto ad un meditato accostamento – e frammentario, aggiungerei – di forme e colori tra loro esplementari. È tutto quello che mi sento di potervi dire riguardo all’orientamento del disco, ai fatti altresì ben più complesso, senza scivolare in manovre linguistiche con ampi retromarcia, sterzate improvvise e, giusto per serrare gli spazi fra le righe, sobbalzi della Crusca con apertura di airbag.  

Il tempo risparmiato per tentare di descrivere cosa (non) suonano i ragazzi sarà sicuramente reinvestito nell’attenzione all’ascolto e nella cura ai dettagli che il lavoro richiede. “Molalathladi” è quasi una provocazione, bersagliante funk natio che mette in fila Amadou & Mariam (quelli degli anni ’70, Manu Chao is forbidden), Tinariwen, Led Zeppelin e Blue Cheer, infilzandoli con un selvaggio assolo hendrixiano. “Banna Ba Modimo” è caldissima, westernata se non addirittura tex-mex, giocata tutta sul filo di una tromba mariachi, e sembra il perfetto sposalizio tra i Tuxedomoon di “Cabin In The Sky” ed Alì Farka Tourè, se solo avesse potuto suonare, anima sua, come Eric Clapton. “Standby”, maligno trucco glottologico, stende, fusion empita di fingerpicking e rilegata da fiocchi pianistici che donano al tutto un’aria vagamente british.  

In “After Robots” non c’è un attimo di pausa, un calo di tensione, niente che possa presagire un allentamento della presa. Ogni canzone dev’essere presa a sé e, solo dopo un’analisi profonda, calata nuovamente nel contesto del disco. Il pericolo dell’esercizio di stile è scampato solo per la quantità di spunti concentrati anche in spazi relativamente ristretti (“Taxidermy”, nemmeno quattro minuti di Faith No More impegnati a fronteggiare una tauromachia andalusa) e, seppure a tratti l’avanzare diventi davvero faticoso, specie quando ritornano alla mente (ahimè) i Mars Volta un po’ lamentevoli dell’ultimo periodo, con tanto di sospensione ambientale prolungata per qualche minuto (“Kwa Nqingetje”, indecisa se essere ballad o pezzo grintoso), l’album sa togliere soddisfazioni non da poco, sia nel far muovere il piedino a tempo con i ritmi in levare – maltrattati da continue perversioni elettriche – di “Skeleton”, unico episodio davvero esotico, o la malefica chiusura di “Tselane”, ninna-nanna spoken word e chitarra che incarna al meglio la figura del griot, rassicurante all’occasione, ma crudo, realistico e spietato quando serve (il finale di “Cursor”).

Non amo lanciarmi in azzardate previsioni, ma questa volta posso sentirmi sufficientemente sicuro: tra dieci anni si parlerà di questo disco, nel bene e nel male, come un punto di rottura, di superare un alt rock già vecchio, di scuotere dalle fondamenta un metodo di composizione troppo chiuso e adagiato sugli allori. E, signori: se dopo i robot venisse solo musica del genere, aggiungeteci una firma.

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Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 5 voti.
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rael 7/10
REBBY 5/10

C Commenti

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fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 9:46 del 10 settembre 2009 ha scritto:

Bravo Marco! Disco bellissimo, una delle rivelazioni dell'anno scorso. Si erano già segnalati l'anno scorso con un Ep eccellente. A me continuano a ricordare i The Sorts. Qui c'è più fantasia e, ovviamente, una "negritudine" più accentuata. "Molalathladi" è uno dei mie pezzi preferiti del 2009.

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 9:47 del 10 settembre 2009 ha scritto:

RE:

*una delle rivelazioni dell'anno in corso*

hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 22:36 del 6 ottobre 2009 ha scritto:

quest'anno di musica etnica ci siam fatti proprio una bella scorpacciata: rispetto a "ispiration information" un disco più votato all'impatto rock,con in più, il dinamismo della voce. questa, veramente gradevole, ruvida,ma anche pop.

"taxidermy" sopra tutte:la mia preferita.

marco: un vero talent scout!