BLK JKS
After Robots
Chitarra in una mano e tromba nellaltra, crocifiggendo lapartheid musicale.
I BLK JKS sono in quattro e vengono dal Sudafrica. Fareste bene a fissare nella mente, se non il loro nome battagliero, secco, crepitante, onomatopeico alla stregua dei più combattivi avamposti delle Pantere Nere almeno quello del loro esordio. After Robots è il suono della prossima sfida con voi stessi, pane per denti mai paghi di novità e che ora, davvero, potrebbero cedere pericolosamente sotto queste raffiche iconoclaste. Amano lhard rock e la musica etnica, il prog-core e il reggae, il funk e il metal. Verrebbe da chiedersi cosa, effettivamente, ci sia di nuovo in tale eclettismo, spesso sbandierato da molti ma padroneggiato da assai pochi. La risposta è chiara: nove pezzi che, guardando in avanti e non indietro, come vorrebbe il disco , evitano il citazionismo fine a sé stesso e sagomano, con tratti nervosi e spezzettati, un nuovo genere: quello della globalizzazione in atto.
Amare lAstrattismo, giacché il solo pensiero di rappresentare qualcosa così comè presuppone uno sforzo di immaginazione e, al netto del risultato, uninevitabile reinterpretazione delloggetto realmente nello spazio, è insito nella natura umana. Meno scontato (ma anche no) è cercare di attribuire un senso a ciò che si vuole fissare su tela e, quindi, di poter portare avanti con efficacia una sensata esplorazione soggettistica. Lo stile dei BLK JKS, nel fluviale andirivieni di influenze e baratti, assomiglia perciò più ad un Seurat che a un Kandinskij, ad un insieme che funziona non grazie ad unanarchia lucida e ragionata, quanto ad un meditato accostamento e frammentario, aggiungerei di forme e colori tra loro esplementari. È tutto quello che mi sento di potervi dire riguardo allorientamento del disco, ai fatti altresì ben più complesso, senza scivolare in manovre linguistiche con ampi retromarcia, sterzate improvvise e, giusto per serrare gli spazi fra le righe, sobbalzi della Crusca con apertura di airbag.
Il tempo risparmiato per tentare di descrivere cosa (non) suonano i ragazzi sarà sicuramente reinvestito nellattenzione allascolto e nella cura ai dettagli che il lavoro richiede. Molalathladi è quasi una provocazione, bersagliante funk natio che mette in fila Amadou & Mariam (quelli degli anni 70, Manu Chao is forbidden), Tinariwen, Led Zeppelin e Blue Cheer, infilzandoli con un selvaggio assolo hendrixiano. Banna Ba Modimo è caldissima, westernata se non addirittura tex-mex, giocata tutta sul filo di una tromba mariachi, e sembra il perfetto sposalizio tra i Tuxedomoon di Cabin In The Sky ed Alì Farka Tourè, se solo avesse potuto suonare, anima sua, come Eric Clapton. Standby, maligno trucco glottologico, stende, fusion empita di fingerpicking e rilegata da fiocchi pianistici che donano al tutto unaria vagamente british.
In After Robots non cè un attimo di pausa, un calo di tensione, niente che possa presagire un allentamento della presa. Ogni canzone devessere presa a sé e, solo dopo unanalisi profonda, calata nuovamente nel contesto del disco. Il pericolo dellesercizio di stile è scampato solo per la quantità di spunti concentrati anche in spazi relativamente ristretti (Taxidermy, nemmeno quattro minuti di Faith No More impegnati a fronteggiare una tauromachia andalusa) e, seppure a tratti lavanzare diventi davvero faticoso, specie quando ritornano alla mente (ahimè) i Mars Volta un po lamentevoli dellultimo periodo, con tanto di sospensione ambientale prolungata per qualche minuto (Kwa Nqingetje, indecisa se essere ballad o pezzo grintoso), lalbum sa togliere soddisfazioni non da poco, sia nel far muovere il piedino a tempo con i ritmi in levare maltrattati da continue perversioni elettriche di Skeleton, unico episodio davvero esotico, o la malefica chiusura di Tselane, ninna-nanna spoken word e chitarra che incarna al meglio la figura del griot, rassicurante alloccasione, ma crudo, realistico e spietato quando serve (il finale di Cursor).
Non amo lanciarmi in azzardate previsioni, ma questa volta posso sentirmi sufficientemente sicuro: tra dieci anni si parlerà di questo disco, nel bene e nel male, come un punto di rottura, di superare un alt rock già vecchio, di scuotere dalle fondamenta un metodo di composizione troppo chiuso e adagiato sugli allori. E, signori: se dopo i robot venisse solo musica del genere, aggiungeteci una firma.
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