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R Recensione

8/10

Group Doueh

Zayna Jumma

Caro Fabio,

se oggi ti scrivo questa lettera, nel bel mezzo del Sahara, sappi che è colpa tua. Solo tua. E non fare quella faccia da finto tonto, da vittima del sistema, da fannullone brunettiano (o da Brunetta fannullone, tanto comunque il concetto è quello). Qui intanto fa caldo, un caldo secco e battente completamente diverso dalle cappe asfissianti e dalle nebbie di questa pianura che a molti sembra Stato indipendente in fieri. La canicola ottenebra i pensieri.

Tempo per dimenticare ce n’è stato, ma spero tu ti ricorderai di quando mi hai nominato per la prima volta i BLK JKS (by the way, mi sono sempre chiesto: dove li hai scoperti?), roba che da fuori sembra quasi una targa automobilistica. E io dissi proviamo, solo per farti contento, e poi dissi uau, che bel disco, bisogna consigliarlo, è certo che fra cinque o dieci anni ne discuteranno tutti. È stata, praticamente, l’unica volta in cui ho parlato a priori del post… cioè, di qualcosa che sarebbe successa in futuro. Infatti: vedi che bella fine hanno fatto ‘sti sudafricani. Spariti. Puff. In una bolla di sapone. A loro e al loro “After Robots” è piombata addosso una gigantica mannaia di sfiga, roba da mettermi alla gogna e pigliarmi a fucilate di sale in faccia. Ma la colpa è tua. Se io sono l’esecutore, tu sei stato il mandante.

Adesso creperai dall’invidia. Mentre i paesi vicini lottavano per la libertà ed una giustizia sociale degna finalmente di tal nome – mi pareva che a proposito tu avessi già scritto qualcosa, o sbaglio? – dall'ex protettorato spagnolo di Dakhla, Sahara occidentale, partiva un impulso terremotante, capace di attraversare in volo due continenti e di diffondersi per tutta la rete. Da noi il modello di famiglia coesa è quello della sitcom televisiva o della produttiva borghesia imprenditoriale. In queste terre vicine e lontane la famiglia si prende per mano e suona. Marito, moglie, figlio maggiore, figlio minore: una roba mai vista. Il capofamiglia si chiama Salmou Baamar, ma tutti lo soprannominano Doueh: è da lui che la strana formazione assume lo pseudonimo.

Con lui Halima, El Waar, Hamdan. Ecco, una canzone come “Wazan Doueh” non si sente proprio in giro, da nessuna parte: percussioni indigene, reiterazioni psichedeliche, bordone di organo tenuto in sottofondo, richiami tribali, ghirigori afro di acustica che vanno a disegnare complessi raga poliritmici, Zappa che rilegge l’antico folklore aurale dei beduini. E dopo vuoi che vada a buttare alle ortiche anche una scoperta del genere? Non esiste. Ora hai capito perché mi trovo qui, in the middle of nowhere, quando potevo benissimo scriverti da casa: sono venuto a cercarli, di persona, sono sulle loro tracce da giorni. Affanculo il malocchio…

Ti terrò sicuramente informato dei miei spostamenti. I Tinariwen ti salutano.

Marco

 

Ecco le menti migliori d’Italia costrette a trovare stimoli culturali in giro per il mondo, scappando da un paese che confonde un cocainomane tatuato per una persona brillante. Per uno come te, che a sedici anni anziché tatuarsi i bicipiti collezionava dischi di John Zorn, sarà un viaggio indimenticabile: da Est a Ovest, attraversando il deserto e i confini dell’Egitto, della Libia, dell’Algeria (e poi giù fino al Niger, al Mali, alla Mauritania e al Burkina Faso) dovrai destreggiarti tra guerre, popoli che i nostri padri hanno (più o meno inconsapevolmente) depredato, temperature mortali ma soprattutto suoni mai ascoltati prima: non solo i “vip” Tinariwen e Tamikrest (difficilmente li troverai, sono sempre in tour tra Stati Uniti ed Europa), ma anche gente come Omar Khorshid (lui è scomparso, ma i suoi dischi sono molto diffusi in Egitto), Hasso Akotey, o il mio prediletto OumaraBombinoMoctar.

Tu intanto segui le tracce della famiglia Doueh, che hanno pubblicato il disco-cult dell’anno. Faccia indimenticabile quella di Mr Baamar, praticamente una copia di Ike Turner, con tanto di occhiali fumé anni ’70. La sua Tina (Halima), al contrario, sostituisce le minigonne con gli abiti tradizionali egiziane. Non farai fatica a trovare segni della loro musica, considerando che suonano in giro per il paese da quasi trent’anni, ovvero dal giorno in cui il piccolo Salmou trovò per caso una cassetta di Jimi Hendrix. Ike Turner, Jimi Hendrix, avrai già capito dove stiamo andando a finire: la chitarra di Salmou Doueh è uno spirito libero che si arrampica sulle scale tradizionali “Tishoumaren” tra quintali di flanger, wah-wah e distorsori. Ascoltare “Ishhadlak Ya Khey” e “Zaya Koum” è il modo migliore, se non l'unico, di ricercare le tracce della psichedelia rock nella musica moderna: il blues elettrico della famiglia Doueh è Hendrixiano nei riff, (quasi) Zeppeliniano (!) nelle fondamenta ritmiche e nell'impeto vocale, eppure sensibilmente “etnico” negli arrangiamenti (l'organo in levare di “Ishhadlak Ya Khey”) e “tradizionalista” nei dettagli (il cantato di “Zaya Koum”). Perché se è vero che amano giocare con il rock, e ancora più evidente quanto ci tengano a contaminarlo con le progressioni della musica propriamente “Sub-Sahariana” (“Zayna Jumma” sembra un “ritorno al passato” dei Tinariwen), con le solennità delle loro invocazioni “mistiche” (quelle mani a ritmo in “Met-Ha”), con il fascino immortale delle loro danze ipnotiche (“Jaguar Doueh”). Ed è altrettanto vero che, in questa mezz'ora che sembra un sussidiario inconsapevole di musica “altra”, riescono a infilare ben due capolavori: la prima l'hai già scoperta, e si chiama “Wazan Doueh”, danza cerimoniale con tanto di “ululati” femminili che sono canti tradizionali di ringraziamento e di benvenuto, l’altra è “Aziza”, invocazione “call & response” che sa di blues e sabbia.

Marco, accetta un consiglio: quando li avrai trovati, in mezzo al nulla del deserto a suonare la pienezza delle loro vite, unisciti a loro e liberati per sempre dal nulla che potremmo offrirti qui.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 2 voti.
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REBBY 6/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 6 questo disco) alle 9:04 del 5 dicembre 2011 ha scritto:

Doueh is mei che one eheh