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R Recensione

6/10

Courtney Barnett

Tell Me How You Really Feel

C’è un che di inafferrabile nella figura goffa e allampanata di Courtney Melba Barnett, australiana di Melbourne, classe 1987, l’impossibile anello di congiunzione tra Kim Deal e Paul McCartney. La vorresti ragazzina cresciuta nel mito della cameretta e della religione slacker, svezzata a indie rock rigorosamente lo fi e infatuata delle sottoculture underground buone al massimo, oggi, per farci sopra dei meme. Eppure poco di quell’indolenza si ritrova in “Nameless, Faceless”, un pezzo killer che ad improbabili ambientazioni college preferisce una citazione d’autore di Margaret Atwood, in un ritornello socialmente polarizzato di inaspettata acutezza (“I wanna walk through the park in the dark / Men are scared that women will laugh at them / I wanna walk through the park in the dark / Women are scared that men will kill them / I hold my keys / Between my fingers”). Forse, si pensa allora, quegli occhi cerulei nascondono un’anima da femminista militante o, ancora, femminista post-ideologica, paladina dei movimenti per i diritti civili: sono l’accesso privilegiato al mondo dei sentimenti di una giovane donna, lesbica e vegetariana, con il sogno di fare la rockstar. Nice try: e un pezzo come “Sunday Roast”, così intimo e delicato (“Keep on keepin’ on, y’know you’re not alone / And I know all your stories but I’ll listen to them again / And if you move away y’know I’ll miss your face / It’s all the same to me, y’know it’s all the same to me”), perdipiù con un video del genere, dove lo si mette, come lo si incasella?

Tre anni fa, con l’esordio solista “Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit”, Courtney aveva fatto saltare il banco, mandando in tilt i radar di una certa critica che voleva il rock con le chitarre un’anticaglia museale inadatta ai tempi correnti. Come a dimostrare che certe cose non cambiano mai, invece, quel disco polarizzò una buona parte di dibattito specializzato (in positivo, come per la nomination a Best New Artist ai Grammy del 2016, e in negativo), conquistando addirittura le luci della ribalta massmediatica per una grottesca campagna pubblicitaria di KFC. La bellezza della post-verità, parte ennesima. Non che queste piccolezze abbiano stravolto il mondo di Courtney, sia chiaro: tant’è che oggi, dopo l’interregno formale con il dandy delle sei corde Kurt Vile (concretizzatosi nel gradevole ma trascurabile “Lotta See Lice” dell’anno scorso), il sophomore ufficiale “Tell Me How You Really Feel” deve limitarsi – una parola… – a cementare lo status della sua autrice, ennesima stella polare di un’Australia madre-matrigna di nuovi talenti elettrici come mai prima d’ora.

Per l’occasione, dunque, rispolvereremo un grande classico della vecchia scuola: l’analisi su due livelli. Che, detto in altri e più comprensibili termini, corrisponde da una parte al track-by-track, dall’altra all’insieme organico. I singoli di presentazione sono uno meglio dell’altro. La già citata “Nameless, Faceless” è una grattugiata grungey, tra riot grrrl e “In Utero”, che nelle strofe si gioca la carta del power rock simil-jingle jangle: scelta oculatissima e vincente. Nell’avanzare al piccolo trotto di “City Looks Pretty”, prima ancora dei Dinosaur Jr., si risentono “Coffee And TV” e quell’atavica placidità narcolettica che solo il vuoto di giornate assolate tutte uguali può donare (Meat Puppets è forse dire troppo, ma è già dire qualcosa): l’ambio viene poi franto da una splendida coda chitarristica, un crepuscolo riverberato di puro spleen in slow motion. “Sunday Roast”, infine, è un lento in punta di arpeggio che, nella seconda metà, diventa esistenziale singalong da generazione X, Y e pure Z (sarà deformazione professionale, ma chi scrive ci sente un po’ i primi Weezer e, pertanto, i Cars). Sono tre brani abbastanza diversi tra loro che, ognuno a suo modo, restituiscono le due diverse istantanee di Courtney tratteggiate sopra: scapigliata ragazzaccia e tenera tomboy. Sono, anche, gli unici brani che riescano a stagliarsi compiutamente sul resto della tracklist. Il che non significa, attenzione, che il disco si esaurisca nei singoli. Ottima, per quanto atipica e non immediata, è ad esempio l’apertura, con la downtunata nenia bluesy di “Hopefulessness” lasciata lievitare lentamente in un possente muro di suono ai limiti del noise: e fortunate, per quanto estemporanee, anche la sortita à la Sleater Kinney di “I’m Not Your Mother, I’m Not Your Bitch” e la sgangherata pantomima power rock di “Crippling Self-Doubt And A General Lack Of Confidence” (ospite alla chitarra proprio Kim Deal).

Vincenti se prese singolarmente, le canzoni di “Tell Me How You Really Feel” si appiattiscono però drammaticamente quando osservate nel loro complesso, accatastate l’una sull’altra in un mucchio indistinto. Non è forse casuale che il tema ricorrente del disco sia l’incapacità di esprimersi, per meriti altrui o demeriti propri: è, niente meno, quanto lascia intravedere il disco. Monocroma ed innocua scorre la decalcomania Sebadoh di “Charity”: “Help Your Self” scorre pigra, tra cowbell parodistiche e assoli da AOR hero; quanto al country zanzaroso ed inoffensivo di “Walkin’ On Eggshells”, non basta un saltabeccante piano honky tonk nel ritornello per cambiarne le sorti. Indecisione stilistica, mancanza di personalità, limite di scrittura? Probabilmente tutto e niente. L’impressione è che Courtney volesse testare la prestanza di brani più “ibridi” rispetto alla sua produzione standard, in vista di una prossima e più decisa sterzata di rotta: si prenda, ad esempio, l’impetuosa ballata elettrica “Need A Little Time”, innervata dalle rustiche stille d’organo di Dan Luscombe, per avere un’idea dei cambiamenti in atto nella penna della giovane autrice australiana.

Aspettiamo, allora, il sole di domani. Consapevoli che, tutto sommato, oggi poteva anche andare meglio.

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C Commenti

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cico57 (ha votato 8 questo disco) alle 22:33 del 23 giugno 2018 ha scritto:

Disco bellissimo, altroché! Con una dote che pochi hanno, quella di saper scrivere canzoni che "restano".