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R Recensione

7/10

Neung Phak

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Nell'annosa (o meglio, annuale) diatriba domestica dal titolo "Dove andiamo in vacanza?", entrano in gioco sempre nuove variabili: la disponibilità economica ("Volo andata e ritorno 29 euro? Ma atterrerà su una pista normale o ci dovremmo lanciare col paracadute?"), la disponibilità temporale ("perchè ho solo due settimane di ferie? e a chi le ho regalate le altre due?"), il tempo che passa ("no dai il campeggio no, mi si blocca la schiena tutte le mattine!"), i sogni che resistono ("magari andiamo a Londra e non torniamo più") e quelli che insorgono con l'età ("non ho intenzione di morire senza prima aver visto il Texas").  

Smontando sistematicamente ogni altra proposta (Caraibi? "Ai Caraibi ci vanno gli stronzi", Egitto? "C'è la guerra civile", Dubai? "Ma perchè dovrei andare a Dubai?", Cuba? "Ci sono i comunisti" "E chi sono?" "Non lo so, ma dicono siano pericolosi") arrivo al mio obiettivo: New York. La Grande Mela, i grattacieli, e poi ci sono delle buone offerte... Il problema è che non ho fatto i conti con l'agenzia di viaggio. Fateci caso, quando c'è di mezzo la parola "agente", la fregatura è dietro l'angolo: agente di cambio, agente immobiliare, agente assicurativo, agente di polizia. L'agente di viaggio propone l'idea "alternativa": isole della Malesia e Thailandia. "Costa un po' di più" (ma io ti ammazzo...) "però il mare, le spiaggie, le palme..." Ma fatti i cazzi tuoi, dico io. Tanto ho già perso, perchè lei parte con un "Dai amore tipregotipregotiprego..." talmente estenuante che non ti da scelta: o la strangoli o la accontenti. "Bene, caro agente di viaggio, ci prendiamo qualche giorno per pensarci (perchè comunque potrei strangolarla, effettivamente)".  

Ormai certo della sconfitta, cerco di farmi piacere il Sud Est Asiatico. Ci sarà pure qualcosa da fare, mentre lei arrostisce in spiaggia rischiando di beccarsi la malaria, il tifo e la febbre Chikungunya. Di monumenti e templi me ne frega niente, non ho mai visto la chiesa di San Gioacchino dietro casa mia figurati se vado a cercarmi il tempio del Buddha Smeraldo. Rimane, al solito, la musica. Qualcosa suoneranno questi, o no? Non sarà come il Mali, ma una qualche cultura musicale ci deve pur essere. La ricerca su internet è sconfortante. Ok il gamelan, ma il ponglang?, il pin? il khaen? Non si capisce una mazza, e io inizio ad avere paura. Quindi niente da fare, tesoro, si va a New York, in cerca di qualche club modaiolo in cui ascoltare un po' di avant-jazz o del sano e onesto indie-rock. Discorso chiuso.

Ah aspetta però: sembra che in California ci sia una vera e propria "scena musicale" composta da gruppi che si ispirano allo stile ed ai suoni della musica asiatica. Ad esempio, questi Dengue Fever (febbre dengue, appunto) mischiano il rock con il pop Cambogiano, e arrivano dal quartiere cambogiano di Long Beach. Beh, non sono male. Simpatici. I Mono Pause invece arrivano da Oakland, California, e anche i Neung Phak. Che poi sono i Mono Pause, tant'è che il primo album dei Neung Phak viene solitamente chiamamato "Mono Pause", e - d'altra parte - Neung Phak è la traduzione thailandese di Mono Pause. Chiaro, no?

Ecco, i Neung Phak sì che mi piacciono. La band nasce dall'idea avuta dai fratelli Gergis. Il primo (Erik) è anche attivo con il nome di Porest, il secondo (Mark) collabora con l'etichetta Sublime Frequencies (a lui si deve, ad esempio, la compilazione e la diffusione dei lavori di Omar Souleyman). Durante i loro viaggi nel sud-est Asiatico (in Thailandia, soprattutto) i due entravano nelle discoteche locali e registravano su nastro alcuni frammanenti musicali. Una volta tornati negli Stati Uniti, quegli spezzoni venivano rielaborati e inseriti nella musica dei Neung Phak (o dei Mono Pause). Il bello di tutta l'operazione risiede nella volontà di non limitarsi al semplice omaggio, ovvero alla riproposizione dei brani originali, ma nell'incorporare quei suoni in una forma-rock che è internazionale (e quindi anche americana) nella strumentazione, ma marcatamente asiatica nei temi e nello stile.  

Rispetto al disco d'esordio ("Neung Phak", ormai risalente al 2003), questo secondo album (intitolato "2") amplia ulteriormente il raggio d'azione della band, aggiungendo  fiati, percussioni e chitarre nella riproduzione (ma sarebbe meglio dire "ricreazione", nella doppia accezione di "creazione di qualcosa di nuovo" e di "divertimento") di una musica che generalmente si limita all'utilizzo di tastiere e drum machine. L'operazione dei Neung Phak sembrerebbe addirittura extra-musicale, nel senso che la resa sonora è caratterizzata da un concept di fondo che coinvolge i temi della globalizzazione musicale (cultura pop, jingle televisivi, combat-rock, reggae) e dell'appropriazione culturale: la cantante Diana Hayes, ad esempio, pur essendo mezza Thailandese non conosce la lingua e impara i brani foneticamente, mentre l'intera band si è esibita spesso con il nome di "White Ring", presentandosi con feroce ironia come un gruppo di bianchi veterani della Guardia Nazionale.  

La miscela tra il materiale originale e quello mutuato dalla tradizione orientale è talmente omogenea da rendere difficoltosa l'identificazione delle due componenti: la traccia d'apertura "Kawp Koon Kawp Koon" è un improvvisazione psichedelica che ruota intorno ai nastri di Mark Gergis, impegnato anche in un giro di basso funk a supporto del canto "in lingua" di Brently Pusser e della tromba di Liz Allbee. Allo stesso modo, i brani strumentali sono quasi sempre rivisitazioni di brani tradizionali : "Khmer 28" è un funk in levare a base di chitarre wah, "Koi Sung Ching" concilia le strutture funk con le scale melodiche orientali mentre la conclusiva "Sat Chatree" è la riedizione (psichedelica e piuttosto "libera") di una danza tipica Thailandese.  

Nei brani cantati i riferimenti agli originali sono spesso rintracciabili e divertenti: "Poo Jud" trasforma la colonna sonora di un film comico Thailandese in un garage-rock scatenato, "Sa-Ha" deraglia in un free-jazz marziale e informe, "Poot" fa vibrare un trombone funk sotto la voce di Diana Hayes, "Wai Wai Wai" è un rock'n roll selvaggio mentre Nawng Mao Pee recupera gli esperimenti beat thailandesi degli anni '60.

Ma la parte migliore di un'operazione del genere non può che provenire dai recuperi pop: il singolo "Fucking U.S.A." è la cover di una canzone scritta nel 2002 da Yoo Ming Suk (cantante e attivista politico Sud-Coreano), un vero e proprio "inno all'odio" antiamericano in chiave korean-punk trasmesso più volte nei telegiornali della Corea del Sud con tanto di sottotitoli in Inglese ("Ricordiamo perfettamente le lacrime e il sangue che abbiamo versato/ e voi siete stati la causa della divisione del nostro paese/e non dimenticheremo gli orribili massacri/ siete un paese di assassini"). "Bang Toyib" è invece un brano popolare indonesiano, pubblicato in decine di versioni differenti (porn-dance, remix, Karaoke ... ): i Neung Phak ne eseguono una versione straordinaria e molto fedele all'originale, ricreando la base elettronica con chitarre e percussioni e affidando la parte vocale ad Alan Bishop, leader dei Sun City Girls e co-fondatore della - guarda un po' - Sublime Frequencies.  

Cara, com' è che si chiamavano quelle isole della Thailandia?

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bargeld alle 19:39 del 12 marzo 2012 ha scritto:

"Quanto sei bello, Fabio, quando viaggi..." (semicit.)

hiperwlt alle 19:05 del 13 marzo 2012 ha scritto:

uh, che ibrido! provo provo