R Recensione

8/10

The Field

From Here We Go To Sublime

Uno dei grandi miti da sfatare è quello per cui si rappresenta la minimal techno come una dimensione sonora algida ed esangue: a scardinare definitivamente il pregiudizio stanno provvedendo, negli ultimi mesi, uscite che segnano una vera e propria evoluzione accelerata della specie.

Tra le etichette di riferimento di questa spinta progressiva brilla la Kompakt: se l’etichetta tedesca da sempre si distingue rispetto alle altre label simbolo del suono minimal-microhouse come Perlon e Playhouse per una più spiccata vena melodica, è pur vero che ultimamente sembra aver preso a sparare giù più assi di un baro navigato: e se ancora girano nei nostri stereo le ultime prove sulla lunga distanza di Hug e Guy Boratto, il suggello di questa ondata pare essere arrivato con l’esordio di The Field.

Uno di cui si vocifera via blog e tam tam assortiti da almeno un paio d’anni, da quel singolo del 2005 di nome Things Keep Falling Down che per primo ne aveva messo in luce il talento: infatuato da sempre di shoegazing, lo svedese Axel Willner, alias The Field, porta con sè il suo bagaglio meticcio e lo trapianta in una techno minimale che vira con calore verso l’ambient, batte di frequente la cassa in 4/4, si sviluppa in crescendo melodici che possono, alla lontana riportare alle mente un altro fuoriclasse del genere, quel James Holden che mesi fa trapiantava la lezione della trance in campo minimal.

Un filo tenue ma nitido lega le loro produzioni: una sorta di magma sonoro dallo sviluppo iperbolico che nella musica di The Field si addensa in brillanti stratificazioni sonore, che possono riportare alla mente certe produzioni trance e progressive, come lo shoegaze stesso.

Musica eterea, atmosferica, emotiva, che fagocita campioni illustri (Kate Bush, Lionel Richie) e li risputa sminuzzati ed irriconoscibili: si ascolti la Kate Bush atomizzata in Over The Ice o il doo wop dei Flamingos che si riverbera sempre più dilatato e sfocato nel finale di From Here We Go Sublime.

Rispettivamente pezzo d’apertura e di chiusura di un disco che regge la sua ora abbondante senza mai arenarsi, fluttuando placido tra saliscendi e crescendo emotivi, barricato dietro a muro di suono che non può che lanciarlo come una sorta di ideale reincarnazione per il nuovo millennio dello shoegaze o, se volete, una rilettura di classe delle suggestioni melodiche disseminate dalla trance nel corso della sua, ormai lunga, esistenza. Un’altra tacca importante per l’etichetta di Colonia ed un altro produttore a cui guardare con molta attenzione anche in futuro.

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 8 voti.
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londra 7/10
REBBY 5/10

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