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R Recensione

8/10

Michael Kiwanuka

KIWANUKA

Tra gli anni '90 e i primi duemila Daniele Luttazzi è stato l'umorista più apprezzato d'Italia. Le sue battute ciniche e il suo anticipare la stand-up comedy lo hanno portato a presentare trasmissioni in cui si poneva come un David Letterman italiano affetto da delirio di onnipotenza. Quello che faceva Luttazzi era sostanzialmente citare i grandi comici americani (che sulla stand-up comedy avevano già costruito carriere intere), contando sul fatto che nessuno in Italia avesse accesso agli originali USA e quindi lui potesse passare per genio offrendo il meglio di un campionario di battute pressoché infinito. Con l'avvento di Youtube e l'accesso massivo agli spettacoli di Bill Hicks, Steve Martin, Jerry Seinfeld e tanti altri, il giochetto di Luttazzi è stato scoperto. Lui ha detto che non copiava, ma citava. In modo analogo, la produzione musicale dei Led Zeppelin è disseminata di riproposizioni di vecchi brani blues riarrangiati. Anche qui, il dubbio che i cari vecchi Zep contassero su una sostanziale ignoranza del popolo rock è lecito. E anche loro, secondo gran parte della critica che conta, non copiavano ma citavano. La domanda finale di tutto sto pippone è la solita: quanto conta, nell'arte, l'originalità? O meglio: dove finisce l'ispirazione e inizia il plagio? O ancora: se Luttazzi ci fa ridere con la battuta della mosca scoreggiona, e i Led Zeppelin ci fanno saltare dalla sedia con il riff di "Kashmir", è importante sapere chi sia l'autore originario dell'opera?

Michael Kiwanuka non ha mai preteso di essere originale e non ha mai fatto mistero di avere delle fonti di ispirazione precise quanto ingombranti. Da novello Bill Withers ha ottenuto applausi unanimi dalla critica con il suo album d'esordio, e da gran paraculo qual è ha assoldato quel genio marpione di Danger Mouse per dare al suo secondo album il tocco vintage che gli ha permesso addirittura di scalare le classifiche.

"KIWANUKA" è, fin dal titolo e dalla copertina, una riappropriazione di identità e una dichiarazione programmatica. O meglio, una riproposizione del proprio ego musicale simile a quelle che Prince (TAFKAP e simboli vari) e Michael Jackson (The King of Pop e deliri vari) manifestavano senza vergogna all'inizio degli anni '90. "KIWANUKA" è quello che sarebbe diventato Bill Withers se avesse incontrato Quincy Jones, ovvero un prodotto apparentemente artigianale e classico, ma creato con attenzione per essere piacevole e vendibile.

La mano di Danger Mouse (e quella di Info) è pesantissima fin dalle prime note di "You ain't the problem", con quel coro vocale che sembra scritto da Guido e Maurizio De Angelis e che rimanda immediatamente alla passione del produttore per le colonne sonore italiane (ricordate il feticcio "Rome" di qualche anno fa?). Lo stesso accade successivamente in "Living in denial", ma in entrambi i casi a fare davvero la differenza è la melodia vocale che Michael Kiwanuka alterna agli arrangiamenti, ricca di rimandi afro nel primo esempio (i call and response femminili) e carica di rotondità soul nel secondo. Il gioco delle citazioni passa in maniera quasi didascalica attraverso Curtis Mayfield ("Rolling" è praticamente "Pusherman"), "I've been dazed" è un gospel diluito, "Piano Joint" è puro distillato Isaac Hayes, "Hero" riprende gli accordi di "All along the watchtower" di Bob Dylan. Fino a metà disco "KIWANUKA" è semplicemente Danger Mouse che mette mano alla sua collezione di dischi e la mostra a un Michael Kiwanuka complice e divertito. Da metà disco in poi, però, il giovane Michael ci tiene a ricordare di essere anche un artigiano, un compositore vero e profondamente ispirato. Allora in "Hard to say goodbye" usa le chitarre "da accoppiamento" di Isaac Hayes e le fissazioni vocali di Danger Mouse per creare una specie di "Walk on By" acustica e psichedelica, "Solid Ground" è una prova vocale inarrivabile e "Final Days" è forse il brano definitivo di Michael Kiwanuka, quasi un tentativo di aggiornare Otis Redding.

Disco scritto, suonato, arrangiato e prodotto con una perfezione quasi eccessiva. Non sarà originale, ma di certo è unico.

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Voto degli utenti: 7,7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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FrancescoB alle 12:41 del 15 gennaio 2020 ha scritto:

Grande e graditissimo ritorno del Fab! Luttazzi credo abbia giustificato in modo abbastanza preciso il proprio modus operandi, dimostrando di non essere un plagiatore seriale ma appunto uno che sa usare molto bene l'arte della citazione in chiave post-moderna, ho letto qualcosa in materia e tendenzialmente concordo con lui. Quanto all'originalità, cito uno un po' più bravo di me, tale Borges: l'originalità è la chimera del dilettante, un luogo comune ereditato dalla poetica romantica che nel modernismo non ha più corso legale.

Poi dovremmo intenderci sul concetto di originalità, per me la rielaborazione personale che devia dalla mera osservanza delle convenzioni estetiche e stilistiche consolidate significa originalità "in senso buono", se mi concedete l'espressione, quindi Albert Ayler era originale anche se utilizzava materiali provenienti dalla tradizione blues del sud rurale americano.

Ah, sulla recensione: splendida e da sottoscrivere in pieno

hotstone (ha votato 9 questo disco) alle 20:44 del 19 gennaio 2020 ha scritto:

gran bel discone ... mi piace parecchio, è suonato bene, mi ha stupido. 9/10

hotstone (ha votato 9 questo disco) alle 20:46 del 19 gennaio 2020 ha scritto:

stupito* )

Paolo Nuzzi alle 13:31 del 14 marzo 2020 ha scritto:

Urge recupero. Il solito, immenso, Codias.