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R Recensione

6,5/10

John Zorn

Midsummer Moons

È da quando il genietto della sei corde Julian Lage ha fatto la sua comparsa nell’universo Tzadik che mi sono messo, di soppiatto, a studiare le mosse del grande burattinaio: qual è il grande progetto dietro quest’acquisizione, che piani dovrebbero coinvolgerlo a breve? Non si tratta di paranoia cospirazionista: nessun chitarrista di rilievo che abbia incrociato la propria parabola artistica con quella di John Zorn (e sono tanti, tantissimi: Bill Frisell, Marc Ribot, Tim Sparks, Robert Quine, Eugene Chadbourne, Arto Lindsay, Thurston Moore, più di recente Matt Hollenberg e Mary Halvorson…) è poi rimasto ai margini della vulcanica iperattività del sassofonista newyorchese, non costituendosi come tassello essenziale un suo qualsiasi progetto. Già in passato, d’altro canto, abbiamo rimarcato la centralità dello strumento chitarra nello studio teorico – e, conseguentemente, nell’applicazione pratica – che Zorn va approfondendo da quasi mezzo secolo: una riflessione condotta su più piani, dalla performatività totale di “The Book Of Heads” alle intense fascinazioni acoustic-klezmer di “Masada Guitars” (ancora oggi, uno dei lavori migliori della sua sterminata discografia), sino all’attrazione verso l’happening noise (variamente inseguito e perseguito in svariate pubblicazioni nel corso degli anni).

Il pretesto per formalizzare il nuovo rapporto collaborativo intrapreso con Lage è un curioso canzoniere dedicato alle epifanie lunari, così come variamente dipinte e cantate nell’opus shakesperiano. Ad accompagnare nell’esecuzione il giovane prodigio di Santa Rosa nientemeno che uno dei figli d’arte per eccellenza, quel Gyan Riley già a capo del quartetto Dither e autore dell’impegnativo parto solista “Stream Of Gratitude” (2011). L’atmosfera che si respira in “Midsummer Moons”, tuttavia, è pregna di un lirismo melodico figlio della quindicinale esperienza maturata da Zorn nel campo dell’easy listening, lontanissimo dai cerebralismi delle sue più ostiche prove degli anni ’70 e ’80. Qui il respiro delle composizioni è spesso assorto, meditativo (“And The Wolf Behowls The Moon” è un notturno chopiniano riadattato per l’occasione), cesellato di articolati fraseggi classici à la Carcassi (“I’ll Met By Moonlight”), modellato su andanti che rifulgono internamente di lucenti progressioni armoniche (“Sliver’d In The Moons Eclipse”, che si regala addirittura dei guizzi centrali à la Reinhardt, sembra una versione minimale dello Gnostic Trio), a tratti anche un po’ stucchevole (eccessive le levigature romance di “By Moonlight At Her Window Sung”) e autoreferenziale (l’arioso tema di “Moonlight Revels”, per gli appassionati, è fuso con lo stampino della vecchia “Dancing”, proveniente da “FilmWorks X: In The Mirror Of Maya Deren” del 2001), ma pur sempre dinamico ed accattivante (il jazz-blues in punta di dita di “This Lanthorn”).

Non ci si inventa assolutamente nulla, sia ben chiaro, e l’ascolto – specie dopo qualche tempo – rivela una tale quantità di punti in comune con innumerevoli altre opere del catalogo zorniano che stare ad enumerarle è un puro esercizio di stile. Ciò non toglie che il dialogo di Lage e Riley – fortunatamente scevro da ogni inutile virtuosismo – sia fittissimo, calcolato con il contagiri e già in grado di regalare attimi di assoluto rapimento estetico. Esempi perfetti, ed in un certo senso tra loro opponibili, sono le vorticose girandole masadiane a rientrare di “Moon, Take Thy Flight” (intervallate da uno stacco in maggiore che assomiglia assai ad un vero e proprio ritornello) e il lento carburare, da chanson medievale, della conclusiva “Wand’ring Moon” (che si regala, inaspettatamente, una velenosa ed efficacissima coda per pentatonica): due brani brillanti e comunicativi, nonostante la loro esplicita sobrietà formale (uno schiaffo ad ogni superfluo funambolismo circense).

Episodio estemporaneo (?), ma intelligente e ben costruito. Meriterebbe almeno un’opportunità, da parte di tutti.

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