John Zorn
Midsummer Moons
È da quando il genietto della sei corde Julian Lage ha fatto la sua comparsa nelluniverso Tzadik che mi sono messo, di soppiatto, a studiare le mosse del grande burattinaio: qual è il grande progetto dietro questacquisizione, che piani dovrebbero coinvolgerlo a breve? Non si tratta di paranoia cospirazionista: nessun chitarrista di rilievo che abbia incrociato la propria parabola artistica con quella di John Zorn (e sono tanti, tantissimi: Bill Frisell, Marc Ribot, Tim Sparks, Robert Quine, Eugene Chadbourne, Arto Lindsay, Thurston Moore, più di recente Matt Hollenberg e Mary Halvorson ) è poi rimasto ai margini della vulcanica iperattività del sassofonista newyorchese, non costituendosi come tassello essenziale un suo qualsiasi progetto. Già in passato, daltro canto, abbiamo rimarcato la centralità dello strumento chitarra nello studio teorico e, conseguentemente, nellapplicazione pratica che Zorn va approfondendo da quasi mezzo secolo: una riflessione condotta su più piani, dalla performatività totale di The Book Of Heads alle intense fascinazioni acoustic-klezmer di Masada Guitars (ancora oggi, uno dei lavori migliori della sua sterminata discografia), sino allattrazione verso lhappening noise (variamente inseguito e perseguito in svariate pubblicazioni nel corso degli anni).
Il pretesto per formalizzare il nuovo rapporto collaborativo intrapreso con Lage è un curioso canzoniere dedicato alle epifanie lunari, così come variamente dipinte e cantate nellopus shakesperiano. Ad accompagnare nellesecuzione il giovane prodigio di Santa Rosa nientemeno che uno dei figli darte per eccellenza, quel Gyan Riley già a capo del quartetto Dither e autore dellimpegnativo parto solista Stream Of Gratitude (2011). Latmosfera che si respira in Midsummer Moons, tuttavia, è pregna di un lirismo melodico figlio della quindicinale esperienza maturata da Zorn nel campo delleasy listening, lontanissimo dai cerebralismi delle sue più ostiche prove degli anni 70 e 80. Qui il respiro delle composizioni è spesso assorto, meditativo (And The Wolf Behowls The Moon è un notturno chopiniano riadattato per loccasione), cesellato di articolati fraseggi classici à la Carcassi (Ill Met By Moonlight), modellato su andanti che rifulgono internamente di lucenti progressioni armoniche (Sliverd In The Moons Eclipse, che si regala addirittura dei guizzi centrali à la Reinhardt, sembra una versione minimale dello Gnostic Trio), a tratti anche un po stucchevole (eccessive le levigature romance di By Moonlight At Her Window Sung) e autoreferenziale (larioso tema di Moonlight Revels, per gli appassionati, è fuso con lo stampino della vecchia Dancing, proveniente da FilmWorks X: In The Mirror Of Maya Deren del 2001), ma pur sempre dinamico ed accattivante (il jazz-blues in punta di dita di This Lanthorn).
Non ci si inventa assolutamente nulla, sia ben chiaro, e lascolto specie dopo qualche tempo rivela una tale quantità di punti in comune con innumerevoli altre opere del catalogo zorniano che stare ad enumerarle è un puro esercizio di stile. Ciò non toglie che il dialogo di Lage e Riley fortunatamente scevro da ogni inutile virtuosismo sia fittissimo, calcolato con il contagiri e già in grado di regalare attimi di assoluto rapimento estetico. Esempi perfetti, ed in un certo senso tra loro opponibili, sono le vorticose girandole masadiane a rientrare di Moon, Take Thy Flight (intervallate da uno stacco in maggiore che assomiglia assai ad un vero e proprio ritornello) e il lento carburare, da chanson medievale, della conclusiva Wandring Moon (che si regala, inaspettatamente, una velenosa ed efficacissima coda per pentatonica): due brani brillanti e comunicativi, nonostante la loro esplicita sobrietà formale (uno schiaffo ad ogni superfluo funambolismo circense).
Episodio estemporaneo (?), ma intelligente e ben costruito. Meriterebbe almeno unopportunità, da parte di tutti.
Tweet