R Recensione

6/10

Skinny Puppy

Mythmaker

Andare a recensire un disco di un gruppo tanto famoso e fondamentale nel panorama industrial mondiale, come gli Skinny Puppy, non è un operazione semplice.

Se poi si considera che l’attesa, spasmodica, per questo disco è durata circa tre anni il tutto si complica ancora di più e per due validi motivi: in primo luogo perché inevitabilmente si ha sempre la tendenza a voler paragonare l’ultimo disco con precedenti lavori sminuendo in questo modo l’ultima fatica ed in secondo luogo perché per un gruppo come gli Skinny Puppy, che vanta oltre venti anni di attività musicale, non è cosa semplice trovare nuovi spunti, idee e rinnovare le proprie sonorità .

Gli Skinny Puppy, formati dal vocalist Nivek Ogre, dal tastierista/percussionista Cevin Key e dall’eccentrico Bill Leeb, nascono a Vancouver in Canada intorno al 1983.

Dopo l’abbandono di Leeb che andrà a fondare i Front Line Assembly, il gruppo si avvale della professionalità del tastierista Dwayne Goettel (morto di overdose nel 1995) con il quale il trio raggiunge picchi elevati di notorietà e professionalità musicale sfornando album importanti quali Bites, Mind: The Perpetual Intercorse, Cleans Fold and Manipulate ed il capolavoro Rabbies.

Dopo la morte di Goettel il gruppo subisce un inevitabile tracollo psicologico che porterà sia Ogre che Key a dedicarsi a molteplici side-project da solisti.

In occasione di una epica riunione dei due artisti viene registrato un storico concerto dal vivo tenutosi in Germania a Dredsa, da cui scaturisce nel 2001 l’album del ritorno: Doomsday: Back and Forth #5.

E arrivamo così ad oggi, dobbiamo al quattordicesimo album in studio degli Skinny, questo Mythmaker, uscito appuntoa distanza di tre anni da “The greater wrong of the right”.

Da un primo (ma attento) ascolto del disco risulta evidente come del CyberPunk che ha caratterizzato il sound degli Skinny Puppy è rimasto soltanto il Cyber, mentre la carica emotiva e la rabbia interiore è andata lentamente scomparendo: quell’ardore primitivo, quell’urlo represso e troppe volte strozzato in gola, nasce da un moto di ribellione tipico delle band più giovani o comunque alle prime uscite ed ovviamente non è il caso degli Skinny che hanno abbondantemente oltrepassato i venti anni di carriera.

Rimane la logica dell’esperienza e la maturità del tempo che avanza inarrestabile.

I 10 brani di del disco conservano una buona dose di elettronica di fondo che come al solito ben si armonizza con la voce monotematica e modulata sulle usuali tonalità basse del vocalist Kevin Ogilvie (alias Nivek Ogre): mancano forse le sonorità miscelate di terrore ambientale spesso proposte in passato, le urla ipnotiche, il dedalo di suoni in cui era facile entrare ma ben più difficile uscire. Ma sarebbe un errore fare paragoni con il passato: meglio concentrarsi esclusivamente sul disco, analizzandolo come se ci si trovasse dentro una sorta di campana di vetro sterile, immuni da agenti esterni, in una sorta di camera iperbarica musicale, asetticamente estraniati da tutto il resto.

Il disco si apre con “Magnifishit”una sorta di ballata gotica che si avvolge sinuosa intorno alla cadenza quasi metallica della voce di Nivek Ogre; la seconda track, “Dal” più marcatamente elettronica, sposa meglio il concetto EBM degli Skinny.

Si scivola verso il terzo brano, “haze”che apre le danze con un cinguettio primaverile tipico di certe ballate medievali, poggiato su sonorità gotiche, sempre scandite dalla voce di Ogre, una sorta di Diapason naturale che segna il tempo e segna il ritmo di tutto il brano.

Nel quarto brano “Pedafly” l’elettronica cede il passo a l’incedere più duro delle chitarre e della batteria cadenzando il ritmo quasi metal di tutti gli oltre 5 minuti del brano.

“Jaher” è un pezzo acustico avvolto da un’atmosfera di fondo decadente ed intimista, da cui scaturisce un sound molto godibile.

“Lestiduz” scivola veloce come il suo ritmo troppo “techno” senza lasciare alcun segno e quasi a segnare una linea immaginaria di demarcazione dell’album stesso: si ha già la sensazione che da questo brano in poi il disco perderà di potenza e di efficacia.

Con “Polikil”, “Pasturn”, “Ambiantz” e “Ugli” si ritorna adascoltare un sound più elettronico e cadenzato, a volte dai tempi sincopati, ma comunque scevro da quel tocco di originalità che rende la musica unica e particolare.

Complessivamente un disco, a mio parere, dai due volti, che lascia la tipica sensazione del lavoro lasciato a metà: all’ascoltatore l’onere e l’onore di tracciare il suo bilancio finale estrapolandone le giuste conclusioni.

Resta sempre, infatti, la difficoltà di dare giudizi imparziali su ciò che si ascolta, con tutte le limitazioni che impone il dover necessariamente catalogare un disco in determinatoun genere musicale, rischiando di mettergli un bavaglio troppo stretto o troppo largo. La musica è respiro, è soffio vitale: ed è troppo libera per essere tenuta al guinzaglio.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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