Nine Inch Nails
Year Zero
Dopo lo sconcertante passo falso di “With Teeth”, album davvero scialbo che sembrava averne definitivamente oscurato la stella, Trent Reznor ha bruciato i tempi ed è tornato in pista, infrangendo la regola dei cinque anni tra un suo album e l’altro.
Assieme a Billy Corgan, il mastermind dei Nine Inch Nails è certamente il musicista della stagione Alternative-Lollapalooza più scaltro a coniugare il proprio spessore artistico con le sirene del music business e il suo nuovo ambizioso progetto musicale sembra il tentativo di un simbolo della passata decade di arrestare il suo declino e rilanciarsi.
“Year Zero” è la prima parte di un concept- album politico, ambientato in un futuro prossimo distopico. Un’America di cupa violenza, dominata sempre più dagli oscuri poteri della multinazionali, con inevitabili ripercussioni autodistruttive e di eccessi da parte degli “eroi” narrativi. Tematiche prettamente cyperpunk, corrente letteraria nata agli inizi degli anni ‘80 con William Gibson, che in quella decade trovò sia la propria rappresentazione filmica in “Blade Runner” o “Terminator”, sia quella musicale con la nascita della wave dark-industriale.
Reznor si formò musicalmente in quel periodo, rendendo moderno il lascito dei numi tutelari di quei generi, trasportandolo nella realtà claustrofobica e contaminata degli anni ‘90 e plasmando il tutto con il suo talento.
Il sound di “Year Zero” rilancia dei Nine Inch Nails più massicci e sulfurei del recente passato,in cui la consueta babele di stili che lo permea ne amplifica l’ambientazione cibernetica. Ciò grazie alla capacità di saper comprimere scorie dub rumoriste alla P.I.L.- Killing Joke ( “The Warning”), furbe sensibilità electro-wave di matrice Cabaret Voltaire ( “Survivalism”, “Capital G”), stratificazioni post metal ( sempre meno che in passato, comunque), funk modernista e impaludato ( “My violent heart”) consueti momenti lirico-pastorali ( “Another version of the truth”)e persino abissali derive alla Massive Attack (“Me, I’m not”).
Va detto che questo ritorno alle origini sembra un po’ forzato e studiato a tavolino, che i vari “Pretty Hate Machine” e “The Downward Spiral” avevano ben altra caratura e impatto visionario e forse soltanto “The Great Destroyer”, il cui crescendo armonico si infiamma su ferali melodie e snervanti deliri, e la già citata “The Warning” si meritano la palma di classico del gruppo.
Del resto, da Reznor in fondo non ci si aspettava un capolavoro ( egli ha abbondantemente già dato in tal senso), bensì un’opera che ne riconfermasse l’istrionica fama, e l’indubbia capacità da “maestro di stile” nel regalare un prodotto godibile, eccitante ed entertaining. Missione compiuta.
Tweet