Nine Inch Nails
The Downward Spiral
I Nine Inch Nails, per coloro tra voi che avessero trascorso gli ultimi 15 anni su Marte, sono la creatura partorita dalla mente di Trent Reznor, uno dei musicisti più influenti della scena industrial degli ultimi 15 anni.
Formatosi musicalmente molto giovane (enfant prodige al pianoforte), comincia ad appassionarsi di musica elettronica una volta trasferitosi a Cleveland (patria, importante ricordarlo, dei maestri Pere Ubu). Qui, comincia a muovere i primi passi nella scena underground della città, militando in diversi complessi.
Nel 1988, il Nostro comincia a scrivere ed assemblare pezzi che finiranno nell'album di debutto, "Pretty Hate Machine" (1989), il quale offre una prova sicuramente carica di carattere e talento, ma ancora troppo legata agli stilemi industrial del periodo (un nome su tutti : i Ministry). Dopo un periodo di iato, in cui problemi con la casa discografica di allora obbligano Reznor a pubblicare un EP ("Broken", comunque ottimo) invece che un album vero e proprio, è la volta di "The Downward Spiral", probabilmente il disco-capolavoro dei Nine Inch Nails, dell'industrial e uno dei dischi più importanti degli anni '90.
In quest'opera, Reznor condensa nel giro di 14 tracce rabbia esistenziale, testi carichi di odio, musica composta da beat elettronici assortiti uniti a distorsioni fulminanti e rabbiose, riuscendo comunque a fare emergere anche il suo lato più intimo ed introspettivo, quasi cantautorale.
Si parte subito in quarta con il primo brano, "Mr. Self Destruct": su una base elettronica ossessiva e reiterata, coadiuvata da pesanti chitarre distorte, Reznor sembra urlare da un'altra dimensione parole stragonfie di risentimento. La canzone accumula beat e tensione fino all'esplosione liberatoria del ritornello, scavato nel brano con invidiabile efficacia. Quest'alternanza di momenti violenti e improvvise catarsi mistiche sarà alla base di molti dei pezzi presenti in questo disco.
La secondo traccia "Piggy" scaraventa l'ascoltatore in un vortice di perdizione sessuale. Un morbido quanto insinuante basso dub crea un'atmosfera malata e pesante, mentre Reznor racconta mormorando una storia di sesso e dominazione, fino al finale in cui una batteria in controtempo porta il brano ad una violenta scossa finale.
"Heresy" forma, assieme a "Closer", un potente duetto di blasfemia ("God is dead and no-one cares", canta Reznor nella prima), raggiungendo in "Closer" una delle vette compositive dell'album, specie nel gran finale, in cui gli effetti stereo di una produzione miracolosa fanno precipitare l'ascoltatore in una spirale di violenza da applausi, fra beat ribattuti fra i due canali e la batteria in continuo crescendo.
Nel mezzo si piazza "March Of The Pigs", 2 minuti e mezzo di marcia (per l'appunto) per orchestra industrial.
Le seguenti 3 tracce, "Ruiner", "The Becoming" e "I Do Not Want This" vanno a formare un trittico che, senza soluzione di continuità, continuano la discesa nell'inferno del protagonista del disco, costretto ora a fare i conti con la sua personale realtà, con la propria mancanza di ideali e con l'incapacità di provare sentimenti. La tensione fin qui accumulata viene sfogata tutta in un unico colpo, nella straordinaria "Big Man With A Gun", ancora un pezzo in cui la dominazione sessuale è il tema portante. In circa un minuto e mezzo Reznor sfoga tutta la rabbia repressa in un sunto fenomenale, quasi fastidioso tanto sono il rumore e la violenza prodotti.
Dopo questo picco, l'autore prende (e fa prendere) un attimo di respiro, con l'ipotesi ambient di "A Warm Place": note di pianoforte e sintetizzatore lasciate galleggiare a mezz'aria mentre si contempla il deserto mentale venutosi a creare nella mente del protagonista.
Ma è solo un attimo: con "Eraser" si riprende la folle corsa verso la distruzione (o la salvezza?): un intro martellante di batteria è preludio ad un lugubre testo in cui il protagonista elenca i suoi ultimi desideri di non-uomo ("need you, dream you… fuck you, use you, break you… lose me, hate me, smash me, erase me, kill me, kill me, kill me…") fino all'auspicio di una morte immediata. Grazie al suo implacabile crescendo, all'atmosfera malata, all'elettronica dissonante all'incredibile finale, questo brano si candida decisamente a capolavoro dell'intera opera.
Tuttavia, non è ancora finita : c'è ancora spazio per "Reptile" (una sorta di dichiarazione d'amore verso qualcuno - o qualcosa - capace forse di salvare il protagonista), quasi sinfonica nel suo maestoso incedere.
Nella title-track si realizzano le fantasie suicide del protagonista, oramai ridotto a mero spettro di sé stesso, incapace di vedere altra via di fuga se non il proprio annientamento.
Si giunge così, stremati, alla conclusione, la quale non poteva che essere l'ennesimo colpo di genio di un artista fuori dalla norma : dopo tutto l'odio riversato nelle tracce del disco, dopo tutto il rumore, la violenza, la rabbia, Reznor piazza in coda "Hurt", una tenue ballata acustica, solo leggermente sporcata dall'elettronica (che prima dominava e permeava l'atmosfera), forte di un testo che è pura poesia, degno marchio finale di un disco che, indelebilmente, ha segnato tutta la musica industrial degli anni a venire.
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