A Santo Barbaro - Quasi al centro di Lorna

Santo Barbaro - Quasi al centro di Lorna

Se v’è una febbre necessaria all’ascolto di un disco, se v’è un clima che a primo fiato possa far salpare un racconto di bocca di mano di porto, un occhio aperto e un altro orecchio – se v’è un luogo, un’anima a un tempo viva e vegeta, esegesi di una visione scivolata nello spazio aperto per un altro occhio chiuso – si sogna, si veglia – si fugga pure dal mondo, per un attimo, si ascolti: dovrebbero mancare pochi secondi/e provo solo un grande desiderio di niente/maledico gli alberi incurvati dai frutti/il viso innocente di un assassino distratto./Potrebbero mancare forse anche millenni/per chi mendica su croci improvvisate/maledico l’uomo che sorride al mio specchio/il dolore che diventa passatempo./e se tu sei il padre perché non mi somigli/se tu sei il padre perché non premi il grilletto/che a me tremano un poco le gambe/nel vedere il destino che giunge su una scia di polvere… Questo è un brano nevicata. Quasi al centro di Lorna.

Pier Alberto Valli ha un tono di febbre, una vitalità incoraggiata dal rumore (di fondo, di schianto)storico dell’uomo che amplifica la propria difficoltà, il proprio dolore di terra e fra il cielo e il sereno passa la bellezza di una vita, l’arte di rimirare e non scendere, scandire semmai le ali di una possibilità, di sogno e deriva, di ritorno all’umano che non si ritrova, magari appartenendosi/vi ancora e slegandosi per il tempo di un viaggio nel tempo, in uno spazio circoscritto ma aperto, un volo. Uno sguardo ancora. Gli elementi dispersi.

Lorna sembra graffiare i muri: sui muri scrivono che non esistono muri. Lorna è per via di una tirannide, attualissima, e si lascia scappare di bocca la vita, la parola stessa stupita. Che questa ha in serbo.

Si può ancora ballare?

Lorna è un disco scandito da un racconto, scritto dal Santo Barbaro, penna e suono di Pier Alberto Valli. Un racconto (di, da, su)per un luogo, una città, forse anche un tempo. “È un confine che ci abbraccia e ci colloca”. Sono ancora parole dell’autore, che apre e non del tutto il nuovo disco di Santo Barbaro con uno scandito appello a che cosa - Lorna è una non bella domanda una non buona risposta - dalla scritta su un muro di Montevideo, al danzeremo ancora, al camminare della storia nell’annientamento della stessa sua passeggiata verso il crollo inevitabile. Lorna è un disco che non ricorda gli altri dischi italiani che pare suscitino adesso un “seguito”, un mood di profilo e un approfondimento sordo e un pochetto accomodato nella immediata tradizione che fu, e anche non tanto lontana, italiana e migliore (e non per il suo essere proverbialmente tradizione). Eppure – non gliene si voglia – c’è più De Andrè in questo versante (passaggi attraversamenti del suono, in un brano in particolare: all’ascoltatore non suggeriremo quale) che in altri cantautorati molto impegnati e afflitti a metà – e che magari citano o non dicono ma verseggiano quell’irripetibile tratto di mondo cantato e neppure descritto ma scritto e dettato ostinatamente sino a toccare il sempre.

Ecco, ciò perché non si avevano paragoni altri, o forse termini o forse bisogno di altri r(ic)e(r)carne, all’ascolto di una voce così scarna, quanto certa e nevicata, dunque sciolta a terra e di nuovo librata a un’altezza sì nuda da corazzarsi e disancorare una rabbia e una ricorrenza al sogno che l’acustico e l’elettronica rendono comunque sognabile, vivida e scettica come una febbre – sì, senza speranze – una febbre del vivere. L’arte ha un suo men che ipotetico coraggio di non appartenere al costrutto di una storia troppo poco impegnata a tracciare profili e dare risposte esaustive, piuttosto esauste – l’arte non è stanca e non è priva, non è il mezzo ma la locomotiva – la musica, il tempo del navigare dentro il reale, il migliore tracciato di un discorso che fa per afferrare il senso ultimo/della nostra umanità.

Chi interroga il mare forse non ha niente da perdere, o tutto e molto da sperare o null’altro e tutto il resto. Che ancora non s’è perso e non si dà. E qui il canto si infittisce. La chitarra asciuga sottilmente le risposte – la folla nel dolore incede sorda a ritmo scalzato. Il dolore di due è coetaneo, in questa storia. E nel racconto di Pier Alberto Valli, intitolato Lorna per l’appunto, in finale un “assordante boato di solitudine”, qualcuno fa fuoco, qualcosa ricompare.

Lorna percorre con il fiato in gola e con lo struggimento di un pianto l’impressione estesa dalla presente tirannide. Lorna implora la vita. Il brano che dà il titolo al disco, il nome senza cognome nella sua carta di identità, ha uno sguardo lucido nonostante il disperato e l’urlo, lucido: nonostante tutto.

Lorna è una città, un luogo, o forse anche un tempo. è un confine che ci abbraccia e ci colloca. (questo scrive Pier Alberto Valli, che la canta)

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