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R Recensione

7/10

Carpathian

Isolation

Ci troviamo di fronte ai Carpathian, gli Australiani divenuti ormai famosi, seppure in una cultura underground, all’interno della scena hardcore internazionale. Stiamo esattamente parlando del genere “duro e tosto” evolutosi dal Punk, alla ricerca di sound più duri, veloci e violenti, con testi di impegno politico, rabbiosi,  suonato da corpi tatuati, icone della  “straight edge culture”.  Così, passando per i Minor Threat, Bad Brains, Agnostic Front ed Exploited, si arriva agli Have Heart, Verse ed infine Carpathian, più legati alla cultura hardcore stile "east coast" di Boston ma levigati dall’ascolto e lo studio di generi abbastanza distanti dal punk classico.  

L‘album presentato, uscito nel 2008, è un tributo agli innovatori della cultura post-punk/dark wave: i Joy Division. Ebbene si, il cantante Martin Kirby ha così voluto rendere onore all’introverso e spettrale Ian Curtis, frontman storico morto suicida all’età di 23 anni. Kirby e Curtis hanno forse qualcosa in comune: quella ricerca disperata dentro sè stessi, espressa nella malinconia estrema dei testi, conditi da sound oscuri e introspettivi… ed è così che i cinque di Melbourne hanno ricordato la band post-punk di Manchester, intitolando l’album per l’appunto "Isolation", inserendo brani come "Ceremony" e "Permanent", e lavorando alla grafica minimale e scheletrica già adottata dai precursori della dark wave britannica dei primi ’80.

Dentro questa cornice contestuale, abbiamo l’album prodotto da una label potente come la Deathwish Inc, caratterizzato da chitarre dure e voce lamentata, cori gang style tipici della cultura east coast hardcore, rapido ed essenziale, di breve durata ma comunque intenso, ricco di sfumature dark, che talvolta ricordano quasi un genere come il depressive black metal norvegese, con all’interno vaste linee melodiche che emergono dalla muraglia sonora della chitarra ritmica e basso, ed infine con il frontman che urla tutta la sua rabbia, trascinando la voce fino alla deriva. Già all’inizio con la title track la band ci illustra come sarà l’album, che manterrà la stessa linea stilistica per tutta la sua durata, portando una rivincita alla sconfitta della prima release, un biglietto da visita che li porterà a esibirsi accanto a band come i Comeback Kid, Parkway Drive e Death Before Dishonor.

Seppur possa risultare monotono nell’espressione vocale e stilistica, all’ascolto impegnato risultano chiare le intenzioni della band, in cui comunque emergono la notevole versatilità del batterista David Bichard e dei due chitarristi nell’alternanza di parti pesanti e melodiche di chitarra, la ricerca di un mood dark con attitudini più ambient, come in "Seventyk",  le radici punk in "Spirals" e "Insomnia", l’armonia melodica negli arpeggi di "Dead Beats from Dead Hearts" e la cruda sofferenza di "Cursed" e "Permanent".

L’album termina lasciando una ferita aperta nell’ascoltatore, che sanguinante, al minuto 25, rimane incredulo per una durata così breve di un full length.

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