Hüsker Dü
Zen Arcade
Recensire una pietra miliare non è mai semplice. Si rischia di cadere nelle ovvietà, nelle ripetizioni, nei luoghi comuni che ognuno sente ribadire quotidianamente. Quando poi il disco in questione non è solo una pietra miliare, ma uno, a nostro avviso, dei primi dieci dischi della storia del rock, allora il compito si fa davvero arduo.
Già questa presentazione appare scontata, ma quando si parla di Zen Arcade degli Hüsker Dü, forse il capolavoro per eccellenza dell'hardcore, gli aggettivi che si sprecano non possono essere che questi.
Uscito nel 1984 come doppio vinile, l'opera è la terza prova del gruppo di Minneapolis (Bob Mould alla chitarra, Greg Norton al basso e Grant Hart alla batteria), uscita per conto della mitica etichetta SST, la quale proprio grazie a questo disco ottenne un insperato boom di vendite (più di centomila copie vendute: scusate se è poco per un disco indipendente!).
Il disco, tecnicamente parlando, è un concept-album, una moderna parabola sulle ansie e le frustrazioni giovanili, una sorta di discesa profonda nelle inquietudini degli angry young men degli anni Ottanta, contrapposti alle ipocrisie della società consumistica composta da yuppies perbenisti.
Dopo un'iniziale e tradizionale sfuriata hardcore secondo i canoni essenziali (Something I Learned Today), il primo supporto comincia a presentare delle esplorazioni in diversi territori musicali, quali folk, blues, metal e persino avanguardia, che saranno la fortuna dell'intero album. Broken Home Broken Heart è costituita da una ricerca melodica evidente, pur nella sua tensione nevrotica. Il basso di Norton si fa meravigliosamente orecchiabile e la dialettica perfetta con il virtuosismo batteristico di Hart ne fanno un pezzo riuscitissimo. Ma dove gli Hüsker Dü stupiscono tutti è nel terzo brano: Never Talking To You Again è una rarità assoluta nel panorama hüskeriano, una sofficissima ballata folk dai connotati introspettivi e psicologici; con questa canzone il trio sembra voler venire incontro ai problemi comunicativi di ogni adolescente frustrato e represso.
Dreams Reoccuring, invece, apre la strada all'avanguardia. Nastri magnetici vengono fatti scorrere all'impazzata avanti e indietro, con mille soluzioni diverse, come nella migliore tradizione dettata dai vari Cage e Varèse.
Con Hare Krsna si entra nella mistica totale: il brano è una sorta di rito di iniziazione, una specie di mantra indiano che si rivolge ancora una volta all'anima degli adolescenti.
Non mancano, ovviamente, i momenti di puro furore punk: Indecision Time, Beyond The Threshold, Pride e I'll Never Forget You sono autentiche devastazioni in musica, i passaggi attraverso i quali tutta la rabbia e la nevrosi accumulata trovano libero sfogo (sembra quasi di udire il rumore degli strumenti fatti a pezzi). Si ritorna a parlare di spunti melodici con The Biggest Lie, in cui l'urlo dal tono solitamente anarchico di Mould si tramuta in lamento esistenziale. La più grande bugia è quella dell'anima che non riconosce i propri errori.
Infuocato e distruttivo è l'honky-tonk di What's Going On, che con cieca disperazione insiste sul tema della tensione psichica (Cosa mi frulla nella testa? è il coro che il trio ripete sino all'ossessione), mentre Standing By The Sea appare come un isolato momento di tranquillità e pacatezza in riva al mare, prima che Mould intoni un cantato dai tratti angosciosi e febbrili.
Dopo un primo disco così, l'album potrebbe tranquillamente terminare a questo punto e sarebbe degno comunque di entrare negli annali del rock. Invece no. C'è un secondo vinile a ribadire gli stessi, magnifici concetti del primo: Somewhere è, ancora una volta, delizia per le orecchie: contrasto magnifico tra furore e dolcezza, tra esasperazione e introspezione, tra rabbia e tranquillità. (E quanto tutto questo avrà influenza sui diversi gruppi emo degli anni novanta!). Dopo il delizioso e brevissimo intermezzo pianistico di One Step At A Time (ancora un pezzo straniante), che fa il paio con la successiva Monday Will Never Be The Same, arrivano due tracce di power pop alla Flamin Groovies come Pink Turns To Blue e Newest Industry; la prima, in particolare, avvicina la band al bubblegum e ai girl groups di inizio sixties. Sul fronte opposto, Turn On The News va invece a recuperare le sonorità del british punk del '77, con Damned, Sex Pistols e Clash che riecheggiano brillantemente.
Solo gli stranianti, epici, assurdamente fuori posto 14 minuti di Reoccurring Dreams (ovvero i nastri di Dreams Reoccurring mandati all'incontrario, triturati e frullati a più non posso) potevano chiudere quest'album epocale, battistrada per il grunge e per il post-core successivi, autentica opera d'arte irripetibile e maliziosamente semplice allo stesso tempo. Non averlo nella propria collezione personale potrebbe costituire un vero e proprio affronto alla storia della musica contemporanea.
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