R Recensione

6/10

Poison The Well

Versions

L’ “esse” delle cose è un “percipi” e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti...

(George Berkley)

 

La radice di ogni conoscenza affonda le sue propaggini pilifere in una falda freatica irrimediabilmente inquinata da una sostanza irriducibile ad ogni dimostrazione empirica.

Un ipotetico substrato materiale di cui, a priori, è impossibile giustificare l’esistenza.

Così come fece Berkley nella filosofia moderna, i Poison the Well iniettano il veleno del dubbio nel trasparente pozzo dell’idealismo americano. Come già nella “Dialettica dell’Illuminismo”, infatti, l’eccesso di razionalità genera il suo contrario, il martello della libertà costruisce l’assito su cui si adagia la bara della tirannia.

Qui l’ipocrisia del quieto vivere viene annegata in una “soluzione al quattro percento” di rabbia, dolore e caos, propugnando un principio etico che rivendica l’individuale inarrestabile volontà dell’essere in abstracto rispetto ai meccanismi contingenti e collettivi della storia. Questo solo per dire che i PTW sono stati (e magari torneranno ad essere) l’unico gruppo post-core all’altezza di insidiare il primato del genere a Converge e Dillinger Escape Plan o perlomeno di avvicinarli in una ideale trinità di valori musicali: dischi come The opposite of december... (Trustkill, 2001) e Tear from the red (Trustkill, 2002) hanno contribuito in maniera incontrovertibile a ridefinire i canoni e gli stilemi dell’hardcore nel nuovo millennio, elevandoli ad inusitati standard di eccellenza dal punto di vista emozionale ed evocativo oltre che squisitamente tecnico.

Consapevoli dell’ormai remota lezione di gruppi come Die Kreuzen e Husker Du, fondamentali per imporre nell’hardcore il lato privato, personale su quello pubblico, sociale accrescendone la componente formale attraverso un quid di ruvida, istintiva sensibilità melodica, i Poison The Well hanno irrobustito la memoria di questi agili capostipiti allenandola con dosi massicce di Nu Metal fino a stravolgerne la detonante gittata sonora e a decentrarne l’intricato equilibrio strutturale.

Da qui in poi, fulmini a ciel sereno, per il gruppo sono cominciati ad arrivare i primi guai e in questi casi, si sa, se pioverà sarà solo merda: il nuovo contratto firmato con una major, la Atlantic, si rivela subito un’arma a doppio taglio che il gruppo impugna dal lato sbagliato nell’incidere un terzo album, You come before you (Atlantic, 2003) che, chitarre ribassate, riff memorizzabili ma non certo memorabili e produzione sfarzosa, tradisce il loro cotè più vicino a certo Nu Metal (Nu Metal, chi era costui? C’è ancora qualcuno che se ne ricorda?) e riesce soltanto nell’impresa di scontentare tutti, nuovi impresari di prammatica e vecchi fan della prima ora.

Come se non bastasse al termine del tour successivo, condiviso con i Dillinger, Derek Miller, chitarrista e asse portante del gruppo, annuncia il suo split. Jason Boyer prende il posto del dimissionario e per i “nuovi” Poison si apre una difficile fase di gestazione di cui ben presto diverranno parti integranti le sedute di registrazione per un fantomatico quarto album la cui uscita, a partire dal 2005, viene sistematicamente posticipata, i successivi quanto precari turnover in seno alla formazione (il gruppo è a tutt’oggi un trio ampliato ad hoc da turnisti e collaboratori) e la ricerca di una nuova etichetta interessata a rilevarli da catalogo di una demotivata Atlantic.

Si arriva così alla fine del 2006 quando l’oggetto misterioso, sintomaticamente intitolato Versions, vede finalmente la luce in una situazione contrattuale intermedia fra le ascendenze indie del gruppo e l’esigenza di soddisfare un ormai vasto bacino d’utenza: la Ferret è infatti una piccola satellitare della Emi.

Ora, debitamente fatta una tara alla mole complessiva delle mie elucubrazioni introduttive, il nocciolo della questione può ragionevolmente essere riassunto in due rapidi enunciati: a) I Poison restano uno dei miei gruppi preferiti fra quelli affermatisi a cavallo di questo inizio millennio e b) l’immensa considerazione e la stima che nutro nei loro confronti non deve in alcun modo indebolire l’analisi del momento attuale così come emerge dal crogiuolo di istanze ed intenzioni della loro ultima fatica discografica. E così sia.

Bando alle ciance, Letter Thing, coriacea e velocissima in apertura, sembra orientare la bussola del giudizio nei pressi di un ostentato ritorno alle origini, crivellando con sapienza miniature grind su architravi metallici da cui erompe come un maglio una lattiginosa partitura melodica di chitarra quasi southern. Breathing’s for the bird, però, contraddice questa prima fugace impressione riportando di peso la musica nel bel mezzo del guado di You come before you: comincia come una marcetta su tempi dispari per derapare in un crescendo emo/dark che ricorda fastidiosamente (l’avverbio riflette ovviamente l’opinione di chi scrive) certe cose insipide degli ultimi Deftones.

Il timore, a questo punto, è che i Poison The Well, nel disperato tentativo di far quadrare il loro cerchio in quattro anni di difficoltosa lavorazione, abbiano cercato di espandersi in due direzioni diametralmente opposte (radici hardcore da una parte, potenzialità melodiche inesplorate dall’altra) finendo per acuire lo iato già presente in nuce nel disco precedente.

Nagaina, infatti, col suo strambo mood paludoso e sudista ricorda, non so quanto volutamente, i conterranei Corrosion of Conformity in album come In the arms of God. La voce, almeno quella, è al suo meglio nell’intonare un peana demoniaco che mescola blues gotico e scream parossistico nel devastato e devastante finale. Non è però il caso di abbattersi perchè ad abbattersi, letteralmente, su di noi ci pensa già il successivo dittico di pezzi da nottata in cima del Blocksberg: The notches that create, ritmica centripeta e supersonica, guida un assalto fatale alle roccaforti del rumore sorretta da chitarre che, a portarle in tour negli Stati Uniti, rischierebbero seriamente di essere sequestrate in quanto potenziali armi di distruzione di massa e dai boati più ferini e sfrontati del repertorio di Jeffrey Moreira, mentre Pleading Post è semplicemente un pezzo della Madonna che inizia con un inedito spoken word gutturale alla Henry Rollins/Rollins Band (mai abbastanza rimpianti!) per toccare vette melodiche stranianti di chitarra country & western, buone per commentare una pellicola come “Dead Man” di Jim Jarmusch; le folli escandescenze dell’epico finale, poi, valgono da sole il prezzo del biglietto.

Ormai sto per accendere un cero sul mio personale altarino del gruppo ritrovato, quando mi piomba in testa come un abside Slow good morning, una roba che, accidenti a loro, sembra presa dagli scarti dei Soundgarden periodo Superunknown, con quel suo wah slabbrato simil Black Hole Sun che è un po’ come i cavoli a merenda che mia madre mi preparava da piccolo. Il tempo di avvisare il mio amico Chris Cornell (ormai impegnato a tempo pieno come indossatore di canotte da uomo Enrico Coveri) e parte El prematurito Baby, brano grazie al quale il gruppo si solleva dalla polvere e sputa in terra incattivito, aizzato da chitarre che suonano sinistre come un sadico mentre affila i propri strumenti di tortura vicino alle orecchie della sua prossima vittima; la ritmica è spezzettata, tagliente al punto giusto, il manifesto psicotico e catartico del gruppo assume così la sua forma definitiva. Ripongo di nuovo i miei pregiudizi dopo Composer meets the corpse i cui sinistri scricchiolii di feedback sembrano un omaggio a “FrankesteinAlbini e a certe sue antiche, mostruose creature, mentre sul tutto domina, finalmente, un’asciuttezza spuria da infrazioni melodiche che giova all’implacabile dinamica del pezzo.

Di seguito, al terzo tentativo, i nostri azzeccano pure lo slow del semestre (se non dell’anno) con You will not be welcomed, fibra rocciosa ma permeabile a sorgenti sonore che dissetano l’animo umano con minuziose dosi di veleno fino a renderlo immune. Una tappa fondamentale nell’inesausta ricerca di un punto focale fra commozione e rancore che da sempre è l’ossessione del gruppo di Miami. Naive Monarch è veloce, cattiva e melodica come Letter Thing ma, in definitiva, solo discreta, Riverside aggiusta di parecchio il tiro di Slow good morning verso ignoti obiettivi melodici, grazie ad un folk/grunge semiacustico spiazzante ma gravido di sviluppi futuribili, laddove The first day of my second life, invece, gioca carte risapute ma sicure portando a spasso un roboante emo-core con l’incedere di un brontosauro.

Un appunto finale: se come me fate parte della schiera di vecchi ammiratori del “Pozzo Avvelenato”, ascoltate pure questo confuso esercizio muscolare e stilistico nella speranza che almeno possa servire al gruppo per togliersi la ruggine di dosso e ritrovare lo smalto dei primi due capitoli, se, al contrario, siete dei neofiti, aguzzate bene le orecchie perchè negli interstizi di Versions scoprirete auriferi frammenti di una passata grandeur e magari, con essi, la curiosità e il piacere di andare, “proustianamente”, alla ricerca del tempo perduto.

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Marco_Biasio alle 17:05 del 11 maggio 2007 ha scritto:

Vedremo

Recensione corposa e fatta molto bene, non c'è che dire... dei Poison The Well ho qualcosina solo da You Come Before You, belli... ora sentiremo anche questo!