Beastie Boys
III Comunication
Ho sempre provato una profonda antipatia per Nick Hornby. Scribacchino mediocre e sopravvalutato, con storie e personaggi tra i romanzi di Harmony e sceneggiati tipo East Enders ricoperti con una patina radical chic, che deve la sua popolarità all’aver dato voce alle nevrosi tipiche dell’ascoltatore di musica rock più o meno alternativa, a cominciare dall’ ossessione per le classifiche ( altro che Scaruffi). Antipatia diventata odio quando, leggendo un suo insulso libello da critico rock, trovai una definizione ridicola: “I Beastie Boys sono il classico gruppo per chi ascolta musica snob, oltre a essere intoccabili per definizione”. I Beastie Boys roba per snob? Ma quando mai! Proprio vero: Springsteen va assunto a piccole dosi, altrimenti nuoce alla salute.
Lasciamo perdere Hornby, e passiamo ai Sommi con l’analisi di “Ill comunication”: certamente uno dei lavori più celebrati della prima metà degli anni 90, oltre ad essere un ottimo compendio degli ibridi stilistici noti allora ai più come Crossover.
I tre ragazzacci della Grande Mela erano partiti col celebre “Licensed to ill” del 1986, uno dei più grandi bestseller degli anni 80: tale opera si proponeva, sulla scia dei Bad Brains e degli altri pionieri a cavallo tra i generi, come un organico e coerente incontro tra il montante hip-hop e la cultura rock, con schitarrate feroci ( ospite pure Kerry King dei temibili Stayer) ad accompagnare un rapping secco e sguaiato su basi già complesse e interessanti, il tutto sotto la sicura guida di Rick Rubin. Ma fu col successivo “Paul’s boutique” che il registro stilistico dei Beasties si aprì a ventaglio, abbracciando il funk, i campionamenti ( di Curtis Mayfield e Sly Stone in particolare) e l’elettronica, grazie alla fondamentale produzione dei Dust Brothers. Il risultato fu uno dei grandi capolavori degli Eighties, nonché punto di partenza per svariati filoni degli anni successivi ( Beck Hansen in particolare avrà preso nota, per non parlare dei Fun Lovin’ Criminals).
Dopo “Check your head” del 1992 , notevole anche se penalizzato dall’assenza di classici assassini a parte la torrida “So what'cha want” toccò appunto al mastodontico "Ill comunication” consacrare Adam Horowitz, Adam Yauch e Michael Diamond tra i Mammasantissima. Un kolossal da venti canzoni con partecipazioni stellari ad affiancare la solida crew dei tre ( capitanata da DJ Hurricane) nel rifinire la zuppa sonora dei Beasties. Tale album fu lanciato da un primo singolo strepitoso. Quel “Sabotage”, dal titolo chiaro omaggio al Sabba Nero di Ozzy e Iommi, che non viene ricordato solo per il celebre videoclip, suprema sintesi di coglionaggine pre-Tarantino dei nostri eroi e firmato da Spike Jonze, ma soprattutto per essere uno degli anthem più esplosivi degli anni 90: un ibrido postcore-funk-rap che non lascia prigionieri. Un inno così perfetto che forse Zack de La Rocha e Tom Morello, tra una sfuriata di rabbia contro il sistema e un drink Mimosa sorseggiato nelle loro ville a Beverly Hills, hanno passato notti intere a rodersi il fegato dopo averlo ascoltato la prima volta, chiedendosi “ Chi diavolo è che ha scritto il pezzo che avevamo noi in testa, quei tre decerebrati figli di papà?”.
Il resto dell’album non è da meno, e rappresenta un formidabile caleidoscopio sonoro in qui ci si trova di tutto: dall’ abrasivo hardcore di “Tough guy “ (perfida dedica a Bill Laimbeer, mitico centro dei Detroit Pistons, una delle più grandi carogne ad aver mai calcato un campo da basket) e “Heart Attack”, all’alternanza tra ficcanti esercizi old school rivisitati (“B-Boys Makin' With the Freak Freak” e ”Root down”, di cui ci saranno diverse versioni remixate in seguito, notevole in particolare quella di Mr. Prince Paul sull'EP/Singolo del '95 ) e una “Get it together” che, grazie alla partecipazione di Q-Tip degli A Tribe Called Quest, consente ai Beasties di giocare ad armi pari pure nei gironi dell’ alt-rap più eccitante di quegli anni. E ancora i groove funky profusi a piene mani (“Sure shot” con un giro di flauto incalzante e “Shambala”), in particolare quelli di alcuni strumentali da applausi; esemplare il funk-bossanova di “Futterman's rule”, trascinato dalle tastiere acide del grande e mai abbastanza lodato Money Mark, come sempre autentica anima nera ed eminenza grigia del gruppo, o la scappattella lounge di “Ricky’s theme”.
Ottime anche le divagazioni klezmer del violino di Eugene Gore in “Eugene’s Lament” , mentre i Kraftwerk a passeggio a Brooklyn in “Do It” sembrano anticipare le visioni futuriste del successivo “Hello Nasty”. E che dire del groove di “Sabrosa”, forte di un giro di basso assolutamente tellurico e ouverture ideale di centinaia di concerti?
Unica nota stonata forse è l’esperimento orientaleggiante di “Bodhisattva vow”, che segnala un notevole salto nei testi – ammiccanti al Kerouac di “I vagabondi del Dharma”, ma nei fatti involontariamente comici quanto il “Licenziare Zen” di gialappiana memoria – distanti anni luce dallo sboccato e ironico sessismo del primo disco. Che peraltro io preferivo: non sono uno snob.
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