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R Recensione

7/10

Pajarritos

Sauce Wars

Il funk italiano esiste. Non è solo un’etichetta posticcia, l’invenzione di una critica burlona che cerca di tenere desta l’attenzione di un pubblico fantomatico. E non si tratta nemmeno di essere patriottici benché, ahinoi, il nostro tempo “devastato e vile” abbia reso siffatta opzione uno dei mali minori. Esiste davvero e ne abbiamo le prove. È un non-genere vivo e pulsante, una vena musicale sotterranea che ogni tanto riaffiora in superficie e assume connotati spuri e diversi ma tutti riconducibili ad una matrice comune. Un suono caldo, verace , caricaturale. Un mix di parodia ed esterofilia, d’importazione e rielaborazione. Capace di aggiungere al substrato afro-americano un tocco randagio, picaresco, maccheronico, tipicamente italiano. Un cuore nero e popolano che batte a intermittenza nelle colonne sonore di tanti film italiani degli anni 70, che palpita nel rap italiano di prima generazione e che arriva fino ai giorni nostri grazie al rimpasto di nuovi gruppi come i Calibro 35 o al rimpatrio di vecchi leoni come la Franco Micalizzi Band. E dei tanti gruppi, più o meno noti, che da nord a sud si sbattono con passione in un sottobosco oscuro e fronzuto, eppure quanto mai vitale.

Fra questi un posto d’onore meritano i Pajarritos. Funky big band milanese, composta di sette elementi, giunta, orgogliosamente indipendente ed autoprodotta, al suo terzo album Sauce Wars che chiude idealmente la trilogia del “sugo” inaugurata da The Sauce Mob (2007) e Sauce Invaderz (2008). È un sound, quello dei Pajarritos, che racchiude in sé molti dei caratteri salienti dell’italo-funk: la goliardia un po’ fumettistica, l’alternanza idiomatica fra inglese ed italiano, l’estroversione melodica, la propensione cinematica, il gusto plateale per l’eccesso e la contaminazione. Funk a rotta di collo, di grana grossa, certo, ma eseguito con precisione chirurgica e un amore fisico, sudato, ansimante per questo tipo di sonorità. La chitarra effettatissima e fiati s’inseguono e si raddoppiano in continuazione, poggiando su un basso acrobatico che propelle la ritmica e sostiene l’armonia e da una batteria strapotente ed inesauribile. I call and response fra la voce femminile e quella maschile conferiscono lo spessore di canzone all’attitudine debordante alla jam.

Suonano immediati e senza pretese, i Pajarritos. Suonano di ciò che vivono e vivono di ciò che suonano. Come rivendicano nell’anthemica Fu#k, a cui le rime del rapper Yuri conferiscono una piega quasi crossover: la paga del funk, perché questa è musica onesta, non è musica stronza, come diceva il protagonista di “The Commitments”, musica che puoi comprare, al limite, ma che non si vende, quindi “se non vuoi scoprire quanto costa il mio funk, sostituisci la N con una C”. E via discorrendo, fra omaggi, via George Clinton, ai Beastie Boys più strumentali e psichedelici (Pol’s Boutique), i brani talora si tonificano di hard-rock (Pyramid e Dinosaucers), talora alternano morbidezze e ripartenze r’n’b (Done With You, I’m Nutz). Si concedono passaggi più soul e confidenziali come My Funk o si lanciano a capofitto nel ritmo sincopato e negli staccati grondanti di wah di Giungla di Sberle, una via di mezzo fra il poliziottesco e dei Bud Spencer & Terence Hill freakettoni “altrimenti ci facciamo”. Undici pezzi di buona varietà e di una vivacità incontenibile, in cui stecca tremendamente solo l’epica sfasata e quasi metal della title-track.

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