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R Recensione

6,5/10

Kids These Days

Traphouse Rock

Ragazzi di oggi. Dell’America di oggi. Esponenti, loro malgrado forse, della meglio gioventù “obamiana”: multiculturale e divisa fra crisi e speranza, ribellione e opportunità. Bianchi e neri in parti eguali: figli di un’obliqua genealogia del rap strumentale che risale a Beastie Boys e The Roots. Non privi, però, di un approccio personale interessante e d’un certo spessore dal punto di vista musicale. Un po’ hipster, un po’ banda del liceo, un po’ musicisti di strada, come gruppo genericamente hip-hop i Kid These Days sono proprio strani, a partire dal numero dei componenti (sei) e della loro composizione: un terzetto vagamente alla Black Keys capitanato dal chitarrista Liam Cunningham, un duo di fiati (tromba e trombone) e ben tre voci, una cantante pop-soul (Macie Stewart) che suona anche piano e tastiere, un rapper vero e proprio che sembra una versione buonista e “graduate” di Earl degli OFWGKTA (Vic Mensa) e uno shouter alt rock (sempre Cunningham). L’album d’esordio, “Traphouse Rock”, è un po’ il delta in cui tutti questi elementi e sonorità confluiscono e si mescolano, scontando qualche ingenuità, perché no, qualche eccesso d’entusiasmo, ma con un indubbia ricchezza di spunti.

Come molti loro coetanei i Kids These Days guardano al passato con la voracità internettiana di questi tempi ma anche con l’abilità tecnica e la metodica precisione dei bravi studenti di musica (specie nella sezione ritmica dove spicca l’eccellente batterista Greg Landfair). Non a caso la maggior parte di questi ragazzi, tutti fra i 19 e 20 anni, ha studiato jazz e improvvisazione alla Merit School of Music di Chicago e l’influsso si sente. A parte qualche eccezione, i 15 brani che compongono “Traphouse Rock” sono ben articolati, ricchi di cambi interessanti e rivelano una discreta qualità melodica e scelte di arrangiamento azzeccate. In sede di scrittura, i Kids These Days utilizzano una tecnica che loro stessi definiscono “samplin’ strumentale”  - evidente, ad esempio, nella ghiotta citazione chitarristica di “Smell Like Teen Spirit” incastonata all’inizio di “GHETTO” o nella conclusiva “A Man’s Medley” che rielabora e sovrappone “A Man’s World” di James Brown e “Summertime” di George Gershwin - e con la quale bilanciano una certa propensione alla jam conferendo alla forma canzone una sorta di ariosa elasticità. La produzione di Jeff Tweedy dei Wilco e il mixaggio di Mario Caldato (storico produttore dei Beastie Boys negli anni 90) sono una garanzia assoluta e il risultato finale è un black-rock anni 70 (carico cioè di elementi funk, soul e blues), suonato da indie-kid degli anni 2000, con il rap, a seconda dei casi, come variabile o costante.

Focalizzando l’attenzione sui singoli brani, oltre alle già citate “GHETTO” - funky anthemico e sincopato in continue ripartenze che sfocia in un finale fuzzy e distorsivo - e il tema libero e aperto di “A Man’s Medley”, si segnala il singolo di punta “Don’t Harsh My Mellow” che denota l’abilità del gruppo nel trasfomare un risaputo pezzo street-rap in qualcosa di più elaborato e personale, con il classico “boom-cha” sovrastato a poco a poco dall’incalzare di una batteria ficcante e irregolare, il rintocco minaccioso e jazzato delle tastiere, i cori spettrali di sottofondo al rappin’ veloce e cattivo di Mensa. Ma i Kids This Days sanno anche variare con intelligenza, uscendo dal classico schema rap-rock con soluzioni più sfumate e melodiche come la lunga “Doo-Wah”, ad esempio, fusione di indie-pop e nu-soul, con le tastiere e la voce della Stewart in evidenza, che cede all’easy listening ma non rinuncia ad un intensa coda quasi shoe gaze o “Talk 2 You”, atmosfera smooth e confidenziale molto anni 70, che alterna fraseggi funk-jazz e a distensioni lounge-pop o il gospel innodico e cinematico di “Bud Billiken” tutto giocato sull’asse cori-fiati prima di avvitarsi, ancora nel finale, in un bell’assolo di chitarra acido e spigoloso. Chitarra che, al pari del suo autore, il bravo Cunningham, si ritaglia uno spazio ancor più significativo in un paio di pezzi che lasciano intravedere un’ulteriore sfaccettatura del sound dei KTD: “Wasting Time” con l’inciso alla Black Keys che si stempera nel languore dei fiati e nel rappin’ felpato e intimista e “Who Do U Luv”, fantasioso adattamento dove la sacralità di “My Body Is A Cage” degli Arcade Fire si converte ad un blues-rock allusivo e profano, cantato e suonato (dallo stesso Cunningham) come farebbe Jack White e sospinto dal piano stile boogie e da cori da saloon.

Un esordio davvero promettente, in conclusione, che sa sorprendere per freschezza ed inventiva all’interno di un genere (chiamatelo pure crossover, se volete) nel quale si tende a dare ormai molto per scontato. Good Kids Windy City verrebbe da dire, parafrasando Lamar.

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