Wu Tang Clan
Enter The Wu Tang (36 Chambers)
Anno di grazia 1993: un intero contingente di truppe americane inviato in Somalia per dirimere la Guerra fra i clan, viene praticamente annientato dalle forze locali; il serial killer Jeremy Rifkin è arrestato per l’uccisione di diciassette persone nell’area suburbana di New York; Marc Andreesen sviluppa l’antenato dei browser per il world wide web (Mosaic); viene immesso sul mercato il primo vegetale geneticamente modificato (Flavr Savr tomato). Bill Clinton è alla Casa Bianca da meno di un anno, un JFK con addosso più rotoli di ciccia e l’onnipresente screening dei media, la sua “nuova frontiera” è quella dei ghetti ostracizzati da dodici anni di “reagan-bushismo”, della sanità gratuita e della scuola pubblica. La rinascita dell’ideologia democratica passa ovviamente per Hollywood dove film come “Philadelfia”, “Schindler’s List”, “Carlito’s Way” e “America Oggi” rigirano l’arma bianca della critica in piaghe sociali vecchie e nuove. Dall’arma della critica alla critica delle armi: il gangsta-rap ha già preso la strada della parodia sexy-demenziale, Doggy Style di Snoop Dog, o del lirismo tragico e neo-romantico, Tupac Shakur; il mondo dell’ hip-hop, già messo sottosopra dal G-Funk del Dr. Dre, è pronto per una nuova rivelazione, quella definitiva. Enter The Wu-Tang (36 Chambers) è la pietra miliare dei 90’s e l’inizio di quella che verrà denominata East-Coast Renaissance.
Da qui l’imprimatur ad almeno due filoni fondamentali nel successivo sviluppo del genere. Il primo, sul breve-medio termine, è quello dell’hardcore o street rap, sorta di contrattacco east costiero al gangsta californiano, che troverà di seguito più ligi campioni in personaggi come Onyx, NAS, Jay Z, Notorious B.I.G. e Puff Daddy. Il secondo, in prospettiva, è una forma di iperrealismo estetico e letterario (che conoscerà in Eminem il suo massimo esponente), una concezione polifonica, narrativa e cinematografica dell’opera, delle liriche e della personalità dell’mc che si manifesta nell’uso del discorso libero indiretto, nell’interpretazione mediata di uno o più alter ego. Doppelganger e maschere attanti d’ogni sorta, dramatis personae in cui l’autore può entrare ed uscire a piacimento, sublimandosi dal semplice dettaglio cronachistico ed autobiografico.
Da un punto di vista concettuale, RZA fa muovere i suoi rapper come i personaggi di un film, ognuno dotato di un ruolo specifico e di una precipua personalità, che raccontano storie, superano ostacoli, cantano vittoria e ingaggiano una perenne battaglia con se stessi e con il mondo esterno, subendone i rovesci e assimilandone le regole in un vero e proprio codice.
Figuratevi la scena: da una parte i raffinati “spadaccini”, Ghostface Killah e GZA, con le loro intricate metafore mutuate dalla “black cultha” così come dalla “pop cultha” e la loro disarmante capacità di variare lo schema metrico all’interno di un singolo verso, dall’altra i “pistoleri” Raekwon e Inspectah Deck, i loro scenari hard-boiled e una visione dell’esistenza grama e cruda, aliena tanto da pentimenti quanto da compiacimenti gangsta, in un angolo Method Man, goliardo di strada, autore di moderni “griots” dal flow roco, vellutato e seducente, a quello opposto Ol’Dirty Bastard, l’irregolare, il sociopatico, un’inquietante maschera allegorica da clown omicida fra Stagger Lee e John Wayne Gacy, in mezzo RZA, il regista che lancia continuamente direttive e proclami dal suo mic/megafono, il predicatore shahadah, il gran visir musicale che introduce, sotto la sua ala protettiva, splendidi gregari come il baritonale U-God (in galera durante la maggior parte delle registrazioni) e il rapidissimo Masta Killa. Iperrealista e quasi distaccato, vissuto in terza persona con l’ausilio dei suoi personaggi più rappresentativi, a 130 anni esatti dall’”Atto di Emancipazione”, il Clan elabora un affresco sanguigno e paradossale sulla condizione culturale dei giovani neri agli albori degli anni ’90, sospesi fra i residui di una coscienza militante ereditata dai padri, le contraddizioni dei programmi di alfabetizzazione e di assistenza sociale, le frequentazioni del sottobosco criminale, l’elogio sfrontato delle droghe leggere, l’apologia anti-borghese (fosse pure la nuova borghesia nera che si affaccia al mondo delle musica e degli affari) e la fatalistica consapevolezza che la vita nel ghetto rappresenta una strada senza sbocco per la propria razza.
Sotto l’aspetto musicale l’album inventa di fatto l’hardcore rap: RZA ottimizza gli evidenti limiti tecnici e produttivi (l’album fu prodotto, registrato e mixato in uno degli studi meno costosi di New York, con le parte vocali spesso registrate contemporaneamente dai vari mc, tanto che la distribuzione delle strofe fu il risultato di vere e proprie “battle” concertate fra gli otto) per ottenere un suono denso e scuro, mordace e corrosivo, costruito su volumi tonanti e sinistri, beat rugginosi e acuminati come chiodi su una vecchia cassa d’esplosivo, troncati da repentini inserti jazzati, armonie morriconiane, avariati loop funky che si crogiolano in un bagno d’acido post-industriale e digressioni orientali quasi raga. Il sampling sistematico di frasi significative tratte da film di arti marziali che riassumono con slogan efficaci la filosofia del Clan e l’uso di skit vocali che riportano senza censure dialoghi sboccati o scherzosi pronunciati “dietro le quinte”, conferiscono all’opera un’inedita struttura da work in progress, una sorta di happening insieme aperto e controllato, al contempo ambientale e narrativo, che avvince l’ascoltatore come la sequenza di una partitura cinematografica post moderna (viene da pensare al minimalismo trasognato di Jarmusch o ad un cut up citazionista sullo stile di Tarantino).
Bring Da Ruckus, Clan In Da Front (solo di GZA) e Wu Tang Seventh Chamber sono anthem martellanti, scabri, essenziali ravvivati dalla vertigine del “pass the mic” e dalle sottili perversioni armoniche (rintocchi di spade, accordi di piano, larsen industriali) di RZA.
Le più ricche e arrangiate Da Mistery of Chessboxin’ (con l’intero Clan che si dibatte fra le spire psichedeliche del sytar, doo wop martellanti e le perle di U-God: “Raw i’m gonna give it to ya with no trivia / Raw like cocaine straight from Bolivia / My hip-hop wil rock and shock the nation like the Emancipation Proclamation” e Ol’ Dirty Bastard, “Here i go, deep this flow / Jacques Cousteau could never get this low”), Shame On A Nigga (la metrica costruita su una frase jazzata di Thelonius Monk e l’apoteosi personale di Method Man, Ol’Dirty Bastard e Raekwon) e Protect Ya Neck (il loro primo singolo, il loro cut più oldschool) preludono alla macerante introspezione cool-soul di Can’t Be All Simple e C.R.E.A.M. (i due pezzi che scaleranno maggiormente le classifiche dei singoli: la seconda, in particolare, più cupa, feroce e quasi noir nelle rime di Raekwon e Inspectah Deck, si piazzerà addirittura in cima alle graduatorie di musica dance).
Una visione del mondo pulp, ironica e selvaggia quella del Clan, da cui è recisamente espunto ogni riferimento alle figure femminili (tanto che alcuni critici hanno visto nel goliardico skit di “tortura” all’inizio di Method Man una sorta di sublimazione omoerotica di un desiderio represso fra le pareti claustrali dei “blocchi” più degradati) e che tocca il suo apice emotivo in Tearz (marcetta per basso e tastiera Rowland), dove il ghigno sarcastico e la stoica indifferenza del combattente si stemperano nella strofa di RZA, la cui intonazione sembra quasi volgere al pianto mentre rievoca l’omicidio del fratellino avvenuto, per futili ragioni, proprio davanti ai suoi occhi (“Memories on the corner of my mind / Flashback i was laughing all the time / I taught him all about bees and birds / But i wish if wish i had a chance to sing this three words…”).
D’altronde, chioserà cinico Raekwon: “after the laughter i guess come the tearz”.
Tweet