The Roots
Rising Down
Vent’anni di carriera sulle spalle e non sentirli. Un albero cresce quanto mai forte e longevo tanto più sono forti le sue radici. Le loro? Addirittura un’ istituzione: fra i pionieri dell’ hip-hop “suonato” e strumentale, con Stetsasonic e Fugees, gli unici ancora in attività, otto album mercuriali grazie ai quali si sono guadagnati uno straordinario crossover di consensi fra critiche e pubblici diversi (“street’s credibility” maturata negli ambienti rap della east coast, acclamate partecipazioni, fra gli altri, a Lollapalooza e Montreaux Jazz festival), anche se la fama mondiale, meteoritica e fuorviante, arriverà solo con l’esecuzione di pezzi altrui, Got Me di Erikah Badu, nel 1999, e soprattutto The Seed 2.0, del vocalist Cody Chesnutt, che spopolò persino da noi, al Festivalbar, nell’estate del 2003.
A chi temeva che la band di ?uestlove (batteria), Hub (basso) e Black Thought (mc) si fosse smarrita nell’oscurità che seguì alla smagliante eclissi di Phrenology (e del suo fragoroso singolo), l’estate 2008 riserva una bella sorpresa: Rising Down è una sintesi più che ispirata dei suoi due predecessori, la rabbiosa urgenza street di Tipping Point (2004) e gli arrangiamenti futuristici, il mood dark-synth di Game Theory (2006).
“Once upon a time, in 1994…”, già l’intro Pow Wow, ci incanala nei meandri di questo paradosso stilistico-temporale, a quando le ferite di Rodney King erano ancora vive e pulsanti e il movimento No-Global ignaro di Seattle e della dose di cruda repressione che gli sarebbe stata somministrata, laddove Rising Down spiana il battito arcigno dell’hardcore rap (col basso sottocutaneo e le sincopi scabre come chiodi arrugginiti piantati in una cassa d’esplosivo) sui riverberi e le ricercatezze dell’accompagnamento (con lo stupendo pattern chitarra/synth che richiama certo goth-rock), lanciando uno straordinario parterre vocale, completato da Mos Def e Style P (spacca-microfono la sua entrata: “Should i say hello, or should i say hell is low”) all’attacco su temi sociali ed ambientalisti. La mirabile pala street-core viene poi tripartita da Get Busy, col basso irsuto ammantato di glaciali campiture synth (eccezionale, in questo senso, il lavoro di James “Kamal” Gray) e un ritornello intarsiato di scratch, e 75 Bar (Black Reconstruction), dove il “flow of consciousness” di Black Thought viene frastagliato dai continui stop’n’go in una miriade di invettive e punch lines.
La classe di questi musicisti risalta in maniera ancora più estesa nell’orchestrazione dark-soul di I Can’t Help It, col gradito ritorno del loro secondo, storico mc, Malik B, su cadenze robotiche ed asintotiche degne quasi dei Massive Attack impegnati nella colonna sonora di “Blade 2”; Singing Man, più agile e sincopata e Unwritten, di una tristezza, a tratti, addirittura ballabile nel bel mezzo di droni e coretti dark pop. Lost Desire (con Talib Kweli) impasta sonorità da club in un sottofondo di bordate industriali e virtuosismi di batteria su metriche caraibiche; The Show trapunta di break-beat old-school sull’onda incontenibile propulsa da basso e synth (con la partecipazione del “fenomeno di Chicago”, Common); Rising Up vacilla un soul jazz da manuale su giri dispari, compulsanti cambi di tempo e cori da cocktail lounge (spazio anche al giovanissimo e talentuoso rapper Wale, nuova sensazione di Washington D.C.). Birthday Girl, in cauda, è uno specchietto per le allodole, l’intelligente esca da dare in pasto al mercato, un reaggae-pop che suona come una black novelty delle canzoni per adolescenti bianchi degli anni ’60 (un’operazione che ricorda, un po’ in tono minore, quella degli Outkast con Hey Ya) con tanto di video sibillino impersonato dall’adorabile Sasha Grey (maschietti, mi raccomando: a buon intenditor…).
Nell’anno delle presidenziali con il primo candidato afro-americano alla Casa Bianca, i Roots sembrano rivendicare l’integrità e l'attualità di un percorso che è un po’ il culmine di quell’abbraccio fra sincretismi elettronici e strumentazione rock consumatosi grazie ai Run DMC, oltre un ventennio fa.
A loro il merito di averlo condotto fino alle soglie dell’avanguardia pur senza tradire l’aderenza ai principi divulgativi e concettuali della cultura street.
Kunta Kinte è ancora vivo e kanta insieme a noi.
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