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R Recensione

7/10

Bad Brains

Build A Nation

Ottavo album e terza reunion dopo quasi trent’anni di carriera per i rastafariani di Washington.

Da sempre più interessati a promuovere street parade anti-proibizioniste che a dinamitare le fondamenta dell’America conservatrice,nelle dinamiche musicali dell’hardcore a stelle e strisce, tuttavia, i Bad Brains rivestono la medesima importanza dei Clash per il punk rock albionico. Due vettori paralleli, spiritualità giamaicana e fucine metropolitane, dub/reggae ed heavy metal, hanno trascinato il loro sound corposo e meticcio dai capolavori degli esordi (“Rock The Light”, ROIR, 1982, e “I Against I”, SST, 1986) fino al presente “Build A Nation”.

È sufficiente isolare dal contesto l’ululato singhiozzante e perverso di H. R. (parossistico ibrido di Prince, Peter Tosh e Iggy Pop) o un canonico riff obice in staccato di Dr. Know per accorgersi di quale enorme influenza abbiano esercitato,rispettivamente,su personaggi ormai entrati a pieno titolo nel pantheon del rock come Anthony Kiedis e Tom Morello. Troppo sofisticati per l’hardcore e troppo in anticipo sul crossover, nonostante alcuni tentativi di “svendere” al grande pubblico una poco convincente mutazione del loro leggendario groove (in dischi come “Rise”, Epic, 1993, sulla scia dei RATM e senza H. R., e “God Of Love”, Maverick,1995), i Bad Brains finora hanno raccolto soltanto gli spiccioli rispetto a quanto seminato,spianando la strada alle messi multimilionarie di gruppi come i RHCPMano Negra e Faith No More.

A dispetto di ogni altra considerazione,comunque, “Build A Nation” è forse il disco più fedele alle autentiche sonorità del gruppo (complice anche il ritorno alla line-up originaria, con Daryl Jenifer e Earl Hudson alla sessione ritmica), l’unica novità di rilievo rispetto al passato remoto è rappresentata dalla produzione di quel buontempone di Adam Yauch (alias MCA dei Beastie Boys) che abbruna le parti vocali di echi e riverberi elettrostatici di stampo marcatamente dub. Un’orgia di filtri e vibrazioni che viene in soccorso delle macerate corde vocali di H. R. e smussa le martellanti frenesie dei pezzi più veloci e spigolosi. Per il resto gli stilemi sono più o meno gli stessi: il reggae non viene mai fuso con l’hardcore ma preservato come un genere a sé stante in cui, per altro, non hanno mai ottenuto risultati eccelsi (qui ad esempio sono degni di nota il reggae/soul lunare e rarefatto di “Peace Be Unto Thee” e la sinuosa danza del ventre “Natty Dreadlock ’Pon The Mountain Top”, ma soporifere le nenie infarcite di ganja e umanesimo “daisy age” “Roll On” e “Until Kingdom Come”), le dita del Dr. Know, frugando a caso nella bisaccia dei glissati, sversano un rifferama proteiforme che varia dal funk-core a rotta di collo di “Build A Nation” (un pezzo urticante tipo i “Peperoncini” di “Freaky Styley”), “In The Beginning” (lasciva e sguaiata come ai tempi belli) e “Pure Love” (commovente miniature funk’n’roll), ai chitarrismi heavy e schizofrenici di funk-metal come “Expand Your Soul”, Universal Peace” e “Let There Be Angel”.

Mentre il basso funky e slappato di Jenifer riempie le concavità dei brani di contrappunti balzani e rotondi come tuorli d’uovo, H. R., ieratico come uno sciamano o un ministro della Chiesa Pentecostale, ormai non tenta neanche più di sincronizzarsi con la musica ma recita filastrocche e modula armonie a mezza bocca, come se fossero soliloqui (e il soul-core di Give Thanks And Praises” è il suo mantra più riuscito).

Un circolo di anarchici sempre aperto fino all’alba,la saracinesca a mezz’aria per accogliere vecchi soci affezionati, avventori e curiosi che solo ora apprendono della sua esistenza. Tutto sommato è bello guardarsi in giro e scoprire che su di loro si può ancora contare.

Da riscoprire.

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