Kanye West
The Life of Pablo
È un disco sul sé, "The Life of Pablo".
Sul sé di Kanye West, chiaramente. Lesaltazione, la glorificazione, lidealizzazione di sé quale gesto egotico, emotivo di una personalità rivoluzionaria per impatto estetico nellhip hop (e nell'entertainment, musicale e non) degli ultimi dieci anni; la personalità (o brand?) di un artista senza remore, pare, nell'accostarsi a figure tanto diverse come Pablo Picasso, Pablo Escobar, San Paolo. Scevro di senso del pudore nel rendere al pubblico ludibrio la propria vita (si vedano i tweet sui suoi debiti e la richiesta di un finanziamento di un miliardo di dollari a Zuckenberg via twitter - sigh), e la vita degli altri tra gli altri Taylor Swift: I feel like me and Taylor might still have sex. Why? I made that bitch famous, o la sua compagna Kim Kardashian I bet me and Ray J would be friends / if we ain't love the same bitch / yeah, he might have hit it first / only problem is I'm rich; alla faccia del disco pieno di gioia e amore.
È anche un disco catalizzatore mediatico, il nuovo West. Lo si è visto attraverso il suo profilo Twitter: medie di ritwittaggio assurde, hype di utenti e riviste (e le bacheche delle webzine in stile breaking news dopo un attentato) ad ogni post: i cambi in corsa della tracklist, del titolo dellalbum (da So Help Me God a SWISH, passando per Waves, infine The Life of Pablo). Tutto un lavoro che rimarrebbe celato, quanto meno contenuto, normalmente: ma che Yeezy ha voluto rendere pubblico (al limite della parodia), fluido, proprio in linea coi tempi (post) post moderni che stiamo vivendo. Un insta, un twittare frenetico di "The Life of Pablo" al minuto.
Così come pubblico, fino a poco tempo fa, non era il disco: esclusiva Tidal da febbraio (il servizio streaming di Jay-Z), successivamente caricato su (ehm) Pornhub, con Apple Music, Spotify e Google Play Music che hanno dovuto aspettare fino ai primi di Aprile per averlo nel loro database. Ciò ha portato il disco ad essere il più ascoltato negli Stati Uniti (classifica Billboard, la prima volta per un disco presente esclusivamente in formato digitale) solo in questi ultimi giorni.
Lalbum, però, ha continuato a mutare nel dettaglio e nella produzione (vd, ad esempio: in "Wolves" il bridge di Vic Mensa e la strofa di Sia; lultimo chorus di "Pt.1") sino al momento in cui stiamo scrivendo. Da qui, nel bene o nel male, un punto di non ritorno: il processo creativo che prosegue anche dopo la release, la forma del disco che varia assieme alle scelte a posteriori dello stesso artista. Il manufatto artistico in continuo divenire, che sempre può cambiare - essendo la sua forma liquida.
Parallelo allostentazione del sé, il collasso: "The Life of Pablo" è anche teatro delle fragilità di un uomo al successo, che accoglie lassoluto (la luce e la voce di dio, i riferimenti a Lot e allAntico Testamento in Ultralight Beam feat Chance the rapper e Kelly Price: foot on the Devil's neck 'til it drifted Pangaea) con una spinta esistenziale palesemente a pezzi e ricercata attraverso i propri mezzi. Che sono l'idiosincratico rimodernamento dell'hip hop, Chicago sud, lego smisurato/l'auto-celebrazione del sé, i colpi estetici (ché, in ultimo, "Yeezus" è soprattutto un colpo estetico), l'autotune (qui più contenuto che in "MBDTF" e "Yeezus"), certo lusso e certo sessismo (ripensate agli inizi, quando limperativo era andare nella direzione contraria), il vissuto, i rancori ("FACTS" e il dissing contro Nike) e il rimuginare del passato (Real Friends, I Love Kanye, 30 Hours, "Wolves"), così come una notevole dose di meccanismi di difesa da disturbo narcisistico (grandioso) I Love Kanye: I love you like Kanye loves Kanye. Ed è un disco in cui si respira uno scontro colossale tra spinta interiore ed ostentazione esteriore: il Kanye centrale, e quello periferico. Al solito, sì dirà: però qui la frattura appare più imponente; più traumatica.
Dei pezzi di "The Life of Pablo" colpisce lestetica, la quale vuole essere mash up di stili riversati in strutture a incastro. La maggior parte degli episodi (specie nella prima parte) è pensato come progressione a più vie, in cui entro ogni pezzo cè spazio per variazioni strutturali: minimali, massimaliste, ultra pop (Waves, feat. Chris Brown; Highlights feat. Young Thug: a volte vorrei che il mio cazzo avesse una GoPro, così potrei riguardarmi quella merda in slow motion), momenti gospel (Ultra Light Beam), i beat trap (Father Stretch My Hands Pt. 1, Pt.2, ancora Highlights), campionamenti vecchia maniera (Fade, 30 Hours, No More Party in L.A.), rabbia dark/wave in stile "Yeezus"/"All Days" (Freestyle 4), super produzioni per arrangiamenti da cameretta (Real Friends).
Ne esce un lavoro discontinuo, poco compatto se non nelle sezioni interne al disco. Ma che vive di momenti altissimi: gli accordi del piano negli spazi minimal-trap di Father Strecth My Hands Pt.1 (un I just wanna fell liberated davvero liberatorio), l'Atlanta di Desiigner ("Panda") in Pt.2, il campionamento (Do What You Gotta Do)/ritornello di Nina Simone cantato da Rihanna e la sopracitata line su Taylor Swift in Famous (con un rimbalzante, grandioso finale simil raggea), il momento ripiegato e il dialogo interno (feat. The Weeknd) di FML, la tensione pop (tiratissima nel sound, emotivissima nel cantato) e le allegorie di Waves (feat. Chris Brown), il delirio dell'ego a L.A. (feat. Kendrick Lamar) di No More Parties in L.A. (SWISH!); il groove, gli accenni funk + stile 808s di Fade.
Un lavoro che sembra in linea che l'evoluzione meravigliosamente illogica della carriera di West, perché ne rappresenta alti e bassi, intuizioni rivoluzionarie e cadute nel grottesco.
Un lavoro che conferma inoltre come il suo egocentrismo (proprio nel momento in cui pare trionfare in modo irreversibile sulla musica) sia tanto linfa vitale quanto fardello insostenibile; detto altrimenti, la pietra angolare della sua concezione della musica e della vita.
E così, pur risentendo forse di una produzione disomogenea (si veda l'infinita lista di credits del disco), The Life of Pablo ha il pregio di risultare camaleontico e figlio di una concezione latamente visionaria-progressiva, quasi inclassificabile in termini di genere.
Anche qui sta la sua forza, come spesso è accaduto per West: che genere potevi attribuire a My Beautiful Dark Twisted Fantasy? E a Yeezus? Ma a dire il vero, persino il più tradizionale The College Dropout (di cui si avverte l'eco anche qui: la chiosa allucinata di Famous, con la voce femminile che diventa l'arrangiamento, in tal senso è emblematica) risultava architettato in modo del tutto inusuale, polimorfo, fino a rivelarsi con l'hip-hop progressivo di Last Call.
Ecco, qui siamo ancora oltre: le varie mutazioni genetiche del passato provano a trovare un punto di incontro, a conciliarsi in una nuova, strana prospettiva soul che proprio per questo non può essere etichettata in alcun modo, se non ricorrendo a schemi e a descrizioni avventate (noi parleremmo quasi di art-hip-hop, ma la verità è non se ne esce: West, come Keith Jarrett nel piano jazz, si è creato un mondo proprio, tanto da diventare lui stesso una sorta di genere musicale ambulante).
Quello che manca al disco è solo la continuità: ma Kanye West non ha smesso di cercare, e già questo è consolatorio. E neppure ha smesso di distinguersi: ora che la black-wave (che lui ha contribuito a creare) è una realtà consolidata, forse LA realtà della musica americana contemporanea, West ci tiene a prendere le distanze (ad esempio, da un certo impegno politico diffuso: nel suo caso i testi sono spesso puri momenti sonori, distanti anni luce dalle riflessioni socio-esistenziali di Kendrick Lamar), a confermare la propria unicità, anche e soprattutto in termini di visione.
Tanto che viene da pensare di lui ciò che Elias Canetti pensava di Musil: Il suo silenzio offende.
Tweet