These New Puritans
Inside The Rose
Field of Reeds usciva circa sei anni fa; oggi, lo si certifica senza dubbio come uno dei capolavori del decennio ancora in corso. Quasi nessuno quanto i These New Puritans, in quegli anni, si era spinto così oltre in fatto di ricerca art ed estetica. Il risultato: un disco di metafisica pop curvata allavanguardia e alla classica, estremizzazione intellettuale di trame bizantine ed esoteriche, alternanza di sublimi ascensioni emotive e sprofondamenti di disperazione. Un flusso epico, dedalo di progressioni armoniche dal fascino religioso, quello dei fratelli Barnett.
Con Inside The Rose i These New Puritans portano meno allesasperazione la radicalizzazione razionale/emotiva del sound di FOR, provando invece a evocare i tratti in forma integrata e teatrale. Le tinte, così, si fanno, se vogliamo, più noir; drama. E la gestalt, nero infuocata, restituisce unestetica spirituale e, insieme, da claustrofobia dark neo-romantica.
Di Jack Barnett (che ha definito il nuovo disco come la cosa più commerciale fatta finora - sic) si percepisce il notevole lavoro espressivo (Infinity Vibraphones, Beyond Black Suns) realizzato sulle voci, così come lattenzione, negli arrangiamenti, per una scrittura melodica (lacme, la rêverie di Where The Trees Are On Fire; Anti-Gravity, Beyond Black Suns) più consistente rispetto al precedente lavoro.
La sezione ritmica di George Barnett torna ad avere oggi più spazio, senza i sussulti distopico bellici di Hidden, certo, ma dando maggior fuoco e istintività (anche con luso di beats: Beyond Black Suns, Inside The Rose feat. David Tibet, A-R-P) in confronto alle simmetrie di FOR.
Fin da subito i TPN (non più quartetto, ma composti dai soli gemelli Barnett) ci spalancano le porte di un mondo tormentato (let's go back to the underworld - tutti i testi sono, in questo album, di George Barnett); ed è subito un continuo rivolgimento e sovrapporsi, entro i brani, di ascensioni e progressioni spirituali, textures rarefatte e concrete, ritmiche serrate, bassi cavi, accordi gravi; brevi e intense bordate noise.
Se alcune differenze risultano sì significative in questo quarto capitolo, altrettanto doveroso è riconoscere come sopravviva l'impronta del these new puritans sound, che preserva una forma di coerenza longitudinale, nonostante sotto i nostri occhi si spalanchi un panorama/abisso comunque rinnovato.
In primo luogo, se è vero che le trame ultraterrene di "Field of Reeds" restano irraggiungibili, anche per audacia concettuale, "Inside the Rose" è a sua volta ammantato in una sorta di emotività di secondo grado. Non c'è nulla di esibito, eppure i suoi intrecci, una volta superata la prima barriera, sanno rapire il cuore e non solo il cervello. La loro proposta, connotata da un'intelligenza oggi pressoché fuori concorso, conserva quindi intatta la capacità di comunicare l'inesplicabile.
In secondo luogo, i numi tutelari dei TNP non sono cambiati in maniera sostanziale, ma sono qui riproposti in una prospettiva diversa, che recupera una certa fisicità passata. I fratelli Barnett venerano la spiritualità astratta del compianto Mark Hollis, e in effetti non è azzardato classificare Jack come il suo erede più credibile, anche per la peculiarità del suo percorso artistico e per la capacità di muoversi in equilibrio sul crinale che separa il pop dall'avanguardia (in senso lato), risultando certosino nel lavoro sulla melodia e al contempo agile nel districarsi tra partiture colte e riferimenti alti. Oltre ai Talk Talk, diventa però qui doveroso recuperare le atmosfere darkwave dilatate e rarefatte di Dead Can Dance (o, volendo un po' forzare la mano, dello Scott Walker meno scorbutico) e certa propensione dei Depeche Mode all'hook immediato: la title-track sembra traslare verso territori più astratti un brano uscito dalle sessions di "Black Celebration".
I brani paralleli al capolavoro datato 2013 risultano, nei fatti, gli ultimi: "A.R.P." (sulle prime, una Organ Eternal parte 2 - ctonia) è un saggio di minimalismo proteiforme, screziato di rumore e celestialità, che si muove in coda su orbite industrial (Mike Gira simpatizza con il neo-romanticismo), mentre la dolcissima "Six", dominata dalle sonorità dell'organo, è il degno capitolo conclusivo di un lavoro già miliare.
E, forse, l'omaggio postumo più bello che si potesse immaginare per Mark Hollis.
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