R Recensione

7/10

The Weeknd

Beauty Behind The Madness

Avendo realizzato di non poter “upgradare” il cupo/tagliente/incompiuto corpus di creazioni giovanili, raccolte nel triplo “Trilogy” (2012), se non suggerendo una pomposa, per quanto non priva di fascino, trasposizione di “Blade Runner” nell'immaginario r&b (“Kiss Land” del 2013, accolto tiepidamente ovunque ma contenente almeno un gioiello distopico come Belong To The World), Abel Testfaye aka The Weeknd ha ben pensato di passare ad altro. Niente svolte country-rock o carriere alternative da giudice di reality: semplicemente un transitare oltre l'oscurità e la catatonia che fin da subito avevano caratterizzato la sua musica critallizzando, seppur con ispirazione scostante, alcuni tratti di ciò che si sarebbe poi chiamato alternative r&b.

Le due settimane consecutive in testa alla Billboard Chart fanno già di “Beauty Behind The Madness” la consacrazione mainstream di The Weekend, il suo capitolo più vario nella scrittura, nel feeling, nel numero di produttori coinvolti (anche se è Illangelo a fare il grosso del lavoro), il più vistosamente proteso a corteggiare, del pop, le platee più succulente/generaliste (vedasi i featuring di Ed Sheeran e Lana Del Rey, ma anche il romanticismo '80s di As You Are). Abbastanza straordinariamente, quasi nulla di tutto ciò traspariva dall'eccitante singolo The Hills, se non che il lato più dark e ossessivo dell'artista canadese trovava una dimensione high fidelity finalmente “snella”, senza esacerbare l'ascolto con le masse sonore mal gestite di “Kiss Land”. Differente il discorso per Can't Feel My Face, appicicosissimo numero dance "funkeggiante" dove il timbro celestiale/infernale del Nostro (è quasi uno shock vederlo ballare nel video, lui sempre così sfatto o "immobile") richiama più volte il fantasma di “Jacko”, vero botto commerciale (#1 negli States, #3 in UK) dietro al quale gongolano i volti svedesi di Peter Svensson (ex chitarrista dei Cardigans) e soprattutto del marpione Max Martin, confermatosi ancora una volta immarcescibile sforna-hit (basti pensare che per tracciare il suo primo number one americano occorre teletrasportarsi nel 1999 e rivivere l'ascesa dell'iconica Britney con ...Baby One More Time).

Non che Testfaye si sia trasformato improvvisamente in un bontempone: Often ce lo riporta ai tormentati fasti dei primi EP o del suo featuring su Remember You di Wiz Khalifa (senza contare quello che forse può dirsi il suo vertice assoluto, quella Crew Love di Drake dove però è lui a fare quasi tutto), ispessendone i connotati trap e il clima di patinata perversione, quest'ultimo forse disinnescato da versi tutt'altro che epocali (“Baby I can make that pussy rain, often / Often, often, girl I do this often / Make that pussy poppin', do it how I want it”). Persino le non disprezzabili (ma dispensabilissime) collaborazioni col roscio più famoso d'Inghilterra (gli staccato ossessivi di Dark Times) e con la chanteuse post-moderna per eccellenza (il limbo di Prisoner) ci parlano di un uomo che non ha chiuso nell'armadio i propri fantasmi, ma che piuttosto s'è prefisso d'evocarli con eleganza e savoir-faire (il tenebroso eppure catchy riff di chitarra acustica a guidare la processione di Shameless, altro pezzo da novanta del disco).

Purtroppo, non è tutto oro quel che luccica. Tra i solchi c'è pure spazio per un lento neo-soul orchestrale con retrogusto "sadomaso-for-dummies" (Earned It, dalla soundtrack di “Fifty Shades of Grey”), per l'indigeribile finalone AOR di Angel (quel coro di bambini, mio dio...), per una stanca Tell Your Friends, prodotta da Kanye West nel suo stile più classico e primigenio, che suona come un'outtake da “Be” di Common. Promette bene, invece, l'ennesima partnership con Svesson-Martin ossia l'irresistibile In The Night (ancora il Michael Jackson più ballabile all'orizzonte), per tacere di una Losers (stavolta l'ospite british è Labyrinth) semplicemente geniale: parte come una versione appena rallentata di Sinnerman (Nina Simone), gonfia gli addominali con l'intrusione di beat pachidermico e tastiere svolazzanti, si placa in un'invocazione gospel per voce e pianoforte, infine termina nel caos organizzato/orgasmico di una specie di electro-swing per big band da far rizzare ogni pelo.

E' in episodi come questo che The Weeknd dimostra di essere ancora artista curioso, comprensibilmente più attento al mercato ma non per questo svilito nella sua essenza. Peccato per i troppi momenti anonimi, che abbassano il voto di almeno mezzo punto e forse oltre. Incurante di tutto ciò, l'aristocrazia mainstream statunitense di colore (non dimentichiamoci infatti del white guilt a incombere come una spada di Damocle sulle teste degli estimatori di r&b e derivati) saluta il suo nuovo membro onorario. Prostriamoci in silenzio. 

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