Kendrick Lamar
To Pimp A Butterfly
Quel genio egocentrico di Kanye West farebbe bene darsi una mossa, perché ha trovato pane per i suoi denti: un altro cervellino hip-hop tagliato a fino, capace di allestire uno spettacolo onnivoro, eccessivo, sfrenato.
Uno spettacolo meraviglioso: To Pimp A Butterfly è la celebrazione della precoce maturità di Kendrick Lamar, che ci parla direttamente dall'interno di Compton, è che è fra i pochi cantautori impegnati, sui generis, della nostra era.
To Pimp a Butterfly è anche la sua fantasia oscura, bellissima e confusa: un lavoro che si appropria dei cliché dell'hip hop per trasformarli in qualcosa di più grande e coraggioso, portandosi decisamente oltre.
Il disco di Kendrick conferma una tesi che il sottoscritto propugna da tempo: la crisi economica, i mutui subprime e tutto il corredo di orrore hanno regalato nuova luce all'Altra America (emblematica, in tal senso, la simbolica copertina: orde di disperati formano una calca davanti alla Casa Bianca). Quell'America, principalmente colorata di nero, che toglie la maschera di zucchero indossata dal capitalismo: là fuori ci aspetta una guerra totale, ancora fomentata, peraltro, da sordide e inconfessabili motivazioni razziali. E questo obbliga a impilare con furia interrogativi, speranze, rabbia, contraddizioni, ripensamenti. Questa è musica impegnata, ma sorretta da un'esigenza espressiva di una potenza unica.
Il nuovo impegno nero, rispetto al passato, è decisamente obliquo, raffinato, più consapevole: Matana Roberts, D'Angelo, Robert Glasper, lo stesso West e Kendrick Lamar, sono (con tutte le differenze del caso) intellettuali a tutto tondo. L'hip hop di protesta degli anni '80 e '90, nella sostanza, si limitava a disegnare scenari futuri benevoli e libertari, oppure funzionava come semplice monito: le cose stanno così, preparati a combattere.
Lamar e gli altri big black dell'ultima era vanno invece un po' oltre, senza per questo avvicinarsi allo squadrismo machista e inquietante dei Public Enemy maturi: ragionano la protesta quasi più in termini di AACM, anche se sono meno ultraterreni, e ancor più incazzati.
Lamar è un osservatore sulfureo, eppure appassionato. E To Pimp A Butterfly lo consacra come gigante della musica contemporanea.
Di più: il disco è un capolavoro che, sulla falsariga di quanto fecero illo tempore i maestri A Tribe Called Quest, riscopre in ambito hip hop una vena jazzy unica e ben calibrata. Questa è musica futurista e progressiva, che vive, più che di canzoni vere e proprie, di articolate suite avant-jazz.
In questo eccesso di materiale, di idee, di geometrie taglienti e cariche di tutti i colori del mondo si scova le analogie più pregnanti con il capolavoro di West pubblicato nel 2010.
Anche in tal senso, Lamar sembra seguire le orme del Maestro/Amico/Rivale/Ammiratore: il maledettismo e l'immaginario da strada, tutto marciapiedi, ambizioni troncate (l'albero dei soldi, la piscina di liquore) e sparatorie del capolavoro targato 2012 perde un po' di consistenza, diventa astratto.
Ciò non toglie che lo spettacolo offerto dal suo ego ferito eppure arrogante, colto eppure tamarro, non abbia eguali nell'universo hip hop contemporaneo (fatta eccezione, naturalmente, per l'ovvio e pluricitato Kanye).
Kendrick, semanticamente parlando, evoca ancora lo spettro del fratello Malcom (come Matana Roberts), e poi fa molto di più: trasforma le arringhe onanistiche di molto hip hop in riflessioni altrettanto crude, eppure dotate di una potenza immaginifica sconfinata. Usa il cervello, Kendrick, in ogni senso possibile, e questo fa tutta la differenza del mondo.
I suoi brani sono stupefacenti dal punto di vista strutturale: dinamici fino all'inverosimile, corrosivi, saturi, sovraccarichi e arrangiati in modo (meravigliosamente) tronfio.
Qualche esempio? Il singolone The Blacker The Berry vanta un testo degno del miglior Chuck D, ed è un miracolo di enfasi e di elettronica - che si gonfia e poi si sgonfia, senza concedere tregua. Mentre il beat regolare perde un po' il passo, si dilata, quasi a voler evocare le strutture mobili del jazz hop architettato nel corso degli anni '90 dal geniale Steve Coleman.
Ma partiamo dal principio: "Wesley's Theory" featura una leggenda come George Clinton, e poi si satura di tastiere, vocoder e pannelli vocali "alterati". Il brano è una specie di labirinto, che riscopre un po' di concretezza grazie alla performance vocale grintosa di Lamar (il cui flow è sempre clamoroso).
Il sassofono alto di "For Free?" apre la strada a un fitto dialogo di voci che è kanyewestiano al 100% (a metà strada fra "New Workout Plan" e "Addiction"), e dà vita a un capolavoro di volgarità sfacciata e velata da una pesante ironia. "These Walls" vede figurare, fra gli altri, un altro nero di prima categoria come Bilal, ed è puro r'n'b da dancefloor, orecchiabile e sfavillante, ancora una volta figlio di una concezione progressiva della musica (gli innumerevoli refrain vocali, il ritornello catchy, i volteggi dell'elettronica alternati ai fraseggi jazz delle tastiere: una meravigliosa confusione)
"U" è jazz orientato verso Robert Glasper (con tanto di una frase incendiaria del sassofono), e si contorce in un discorso vocale appassionato e un po' delirante, che sembra sgraziato, ma solo perché Kendrick parla con il cuore in mano. Anche qui la scrittura funziona a pannelli, è stratificata, rigogliosa, rallenta e poi accelera quasi che Kendrick fosse il Mingus dell'hip hop contemporaneo (e no, non sto bestemmiando, se è questo che temete). Impressioni simili evocano "Alright", spezzata dai continui break della ritmica, o la più luminosa, quasi princiana "Complexion (A Zulu Love)", che è fra i momenti più esaltanti del disco.
"For Sale?" assembla cori gopel, il respiro di Lamar (!!), la melodia dolce di un sassofono, un milione di microeventi che progressivamente si tolgono spazio e aria, degenerando in una sorta di pichedelia "liquida" tutta kendrickiana. La natura intimamente anfibia della versione di Kendrick emerge in tutta la sua dirompenza nella fantascientifica e inclassificabile "Hood Politics" (con l'intro che sembra uscita da qualche invenzione di Gil Scott-Heron, mentre il resto del brano si regge sopra un'arringa tiratissima), così come nel soul-hop arioso e solenne di "How Much a Dollar Cost?" (Kendrick, incredibile ma vero, è bravo persino con i titoli).
"Mortal Man", con i suoi dodici minuti, è il momento in cui Kendrick osa ulteriormente (in un contesto che è già tutto un osare), mettendosi sulla falsariga di "Last Call" del solito West, o della sua "Sing About Me". Musicalmente, si tratta di una lunga digressione contesa fra jazz notturno e sinistro (le splendide fanfare, il pianoforte), soul, ritmi da marcia, monologhi in piena solitudine, un'intervista immaginaria a Tupac. Il testo assegna a "To Pimp a Butterfly" la palma di Divina Commedia della musica hip hop contemporanea, o qualcosa del genere: ispirato da un viaggio in Sudafrica, il brano traccia una linea immaginaria che congiunge le vicende di Malcom X, Martin Luther King, Mandela e l'idolo Tupac Shakur, tutti inquadrati come voci autentiche, capaci di invocare libertà per il popolo nero.
Non so neppure come concludere, sono frastornato e sbalordito. Lo dico: il 2015 è l'anno in cui la musica nera ha definitivamente riscoperto una grandeur impressionante, o meglio la capacità di spostare in alto l'asticella.
E Kendrick troneggia su tutto e su tutti: lui ce l'ha fatta, che ci provino gli altri, adesso, a fare un disco così.
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