Kanye West
Yeezus
Gesù è risorto per la settima volta ed è tornato più incazzato di prima. E' il Complesso del Messia (o "savior complex" o "Christ complex") quello che filtra per primo e per sempre fin dalle synth-distorsioni iniziali di "On Sight" (6), in questo magni(e)loquente "Yeezus". Ma cosa vuole dirci davvero Yeezy tra la ruggine dei synth e il rappin' lucidissimo di questi primi versi squadrati? Tra il profano di certa ossessione sessuale e il casto di un coro religioso che intona per voci bianche "He'll give us what we need... it may not be what we want..."? Che Gesù è sempre sullo sfondo, e che dietro l'immagine di un Cristo/Kanye che tutto può "a vista" (innatamente, questa una libera traduzione del titolo) l'ombra di Yeezy si allunga a ribadire, seguendo il sample corale incastonato al cuore della canzone, che la sua non è la musica che la gente desidera, ma è quella anche quasi inascoltabile di cui la gente ha bisogno. E proprio nei suoni inascoltabili (ascoltabilissimi) si riconosce molto, nei primi tre pezzi che hanno prodotto ma nell'opening track soprattutto, il tocco mai troppo leggero dei Daft Punk, ora a ruoli invertiti rispetto alla "Stronger" che fu (e qui, proprio alla fine di "On Sight", piccola auto-citazione quando Kanye urla "Right now! I need right now", variante scura di "I need you right now" dell'altra di "Graduation"). E quindi sì, i primi versetti dell'album dicono verità: Yeezy season approaching.
Ed è una stagione che più calda non si può quella inaugurata da Kanye West: appiccicosa, sudaticcia, soffocante. "Black Skinhead" (7) è proprio lì ad asfissiare i polmoni, farli bruciare, strozzarne il fiato fino a comporre una marcia tribale di selvaggia autocelebrazione, un vanto-spavento animalesco ("I'm aware I'm a wolf/Soon as the moon hit"), brutale ma mai abbandonato a una cieca bestialità, in cui persino i versi ansimanti più ferini seguono una logica metrica perfetta; e non manca la tematica scottante del caso - il razzismo itinerante degli skinhead - né specialmente l'ambiguità con cui viene trattata, tessuta com'è sul filo doppio della denuncia sociale e di una fumosa rivendicazione discriminante verso la gente bianca (per questo black skinhead). Dall'autocelebrazione all'autodivinazione il passo è breve: "I'm A God" (6,5) chiude il trittico hardcore iniziale con una catarsi tanto esplicita nei versi quanto assordante nei suoni, con una base elettronica martellante fatta di beat incessanti e battiti pulsanti, fino alla liberazione finale, alle agghiaccianti urla spezzate (prima) e lasciate esplodere (poi) che sembrano quasi voler disintossicare Yeezy dalle ultime scorie di esasperata umanità e lasciarlo elevare fino al divino. E' proprio questa sua continua voglia di strafare, stracantare, straprodurre che restituisce a noi che ascoltiamo l'artista più poliedrico e originale del panorama hip-hop mondiale, fin dal primissimo "The College Dropout". Da sempre. Prendiamo "Blood On The Leaves" (7,5) come esempio, capolavoro massimo di reinterpretazione musicale e tematico: le note desolate di pianoforte e la voce appena modulata di Nina Simone ci portano subito al cuore della tragedia le impiccaggioni nere di piazza descritte mirabilmente dall'originale di Billie Holiday e il sample perfetto è già servito: sui versi desertici di "Strange fruit hanging from the popolar trees/Blood on the leaves..." Kanye non si ferma alla citazione ma dà nuova vita a una canzone tristissima scrostrando via la pece nera che la ricopre e donandole nuovo respiro, nuova linfa agli alberi che racconta, il tutto con una base in contrasto continuo tra sovradosaggio a trionfo d'archi e momenti di calma rarefatta, la voce iper-vocoderizzata di Kanye che trova spazio tra piena esaltazione e piena disperazione...
Il punto è questo: anche quando Kanye non brilla per costruzione di un pezzo magari si inceppa in qualche beat poco riuscito, magari perde qualcosa tra le rime riesce comunque a piazzare con esemplare maestria e buon gusto quel sample spaccamascella che conquista al primo ascolto: è il caso di "New Slaves" (7,5), base cementificata e rappin' quasi immobile, ma un ultimo minuto raccolto nel melodico incanto del sample che regala un Frank Ocean in splendida forma, tutto ritmica scioltissima, cori soul, voce filtrata, e una coda finale che riprende in maniera molto elegante i primi quattro versi di "Gyöngyhajú Lány" della band ungherese Omega (tradotto in inglese "One day the Sun felt so tired/She has fallen asleep in the lap of a deep green lake/Then the people felt pain in the dark of the night/She's felt compassion and has come among us": il riferimento è mistico, ancora una volta Kanye veste i panni della divinità qui Ra, Dio-Sole egiziano che scende sui popoli come vera luce in questa nuova era di ignoranza e, appunto, nuova schiavitù americana).
Certamente "Yeezus" non è quel miraggio compositivo come lo è stato "My Beautiful Dark Twisted Fantasy" o "808s & Heartbreak", ma esplora e non si ferma mai alla superficie, e pur girando a vuoto in qualche momento va sempre al doppio della velocità rispetto agli altri. E il minutaggio, qui, è semplicemente perfetto: canzoni come "Hold My Liquor" (7,5), "I'm In It" (8), "Guilt Trip" (8), tutte racchiuse in pochi minuti, riescono a condensare massimamente tutta la potenza e la fantasia straripante di Kanye West. La prima riprende un po' certe atmosfere spirituali di "Lost In The World" del capolavoro precedente meno corale qui e più da lupi solitari nell'incastro di synth effettati e chitarre folk, complice ovviamente la partecipazione di Bon Iver dalla sua casa nel bosco, che rivela l'ennesimo featuring riuscito tra i due; "I'm In It" e "Guilt Trip" sono invece una continua esplosione di suoni, svelano il lato più estroso di Kanye West, la continua ricerca di un groove massiccio e malleabile al tempo stesso da cui si slacciano flow potentissimi (il ritornello metallico di "Guilt Trip", con una modulazione coriacea della voce di Popcaan sample preso in prestito alla "Blocka" di Pusha T a scavare tra le tonalità più basse è tra le vette altissime di "Yeezus"). A incantare è proprio il modo in cui Kanye restituisce grazia ed armonia anche alle basi più grezze (i martelli e le sirene di "I'm In It" trasformate in melodia purissima e ritmiche perfette, in cui si diffondono i verbi magnetici di Bon Iver e le metriche rapidissime di Assassin), l'elaborazione e la naturalezza che c'è dietro ogni base o linea vocale che può solo passare attraverso una costante: l'istinto musicale. Poco importa, infatti, se "Send It Up" (6) è riuscita solo a metà e rifà un po' il verso a qualche base precedente, se "Bound 2" (7-) è un mezzo-capolavoro rovinato appena da qualche inciampo e indecisione tra i samples (splendidi entrambi, ma pitchati male insieme). Kanye West si è reincarnato per l'ennesima volta senza deludere. Divinazioni a parte, un artista umano grande così.
Tweet