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R Recensione

7/10

Florence + the Machine

Ceremonials

Una chioma cremisi, un viso ossuto, due gemme verdi al posto degli occhi e due fulgide labbra sempre pronte a contorcersi in smorfie d’allegria.

Questo è il ritratto di Florence Welch, giovane e grintosa londinese anno '86, il cui unico vero vanto risiede nella voce: limpida, potente, soave, in grado sia di evocare suggestioni celtiche sia di infuocarsi, di richiamare alla memoria soul-singers del calibro di Etta James e Nina Simone ma anche cantanti rock come Grace Slick e Fiona Apple.

Si tratta di una voce deliziosa, una voce che echeggia superba in tutte le sue sfumature nel magico e accattivante Ceremonials, secondo album dei Florence + the Machine. Gruppo che, nonostante abbia alle spalle soltanto due album (questo Ceremonials e l’arioso e frizzante esordio Lungs), ha al suo seguito una gremita schiera di fan.

Le atmosfere sciorinate dai Florence + the Machine sono gloriose, possenti, ridondanti, turgide di misticismo, talvolta eteree, leggere fino all’inverosimile, talvolta sanguigne e tenebrose, talvolta ancora gradevolmente romantiche. E la diffusione di atmosfere così dense e variegate è garantita da un suono genuinamente pop, imbastardito da quasi impercettibili influssi provenienti da un’estesa gamma di generi musicali (art rock, soul, folk, slowcore, gospel).  

Ceremonials è un’orgia di suoni e colori, un affascinante arazzo rinascimentale di significati particolari e contorti, un lungo incantesimo, una danza per istrioni di corte e giullari egotisti, un cammino quasi ieratico che discende fra i demoni dell’inferno ("Seven Devils") e che si sbarazza degli stessi per innalzarsi verso il candore del cielo ("Shake it Out").

L’album si apre con la solenne "Only if for a Night" e a contornare la voce imponente della Welch luccichio d’arpa, piano, colpi di tamburo, guizzanti violini, cori spettrali che si inseguono, si dissolvono e si ripresentano. Segue il singolo più famoso, rielaborato anche dai ragazzi di Glee, e il suo avvolgente mantra gospel (Shake it Out! Shake it Out!) che scoppia in un luminoso vortice strumentale che si arma di organo, tamburelli e campane. La nostra Welch, come in preda a un deliquio mistico, ci invita a liberarci dei nostri mali e a scrollarci di dosso ogni afflizione, ogni demone che ci tartassa e tormenta. Forse uno dei brani più riusciti dell’album.

Le atmosfere feeriche e sbarazzine di "Shake it Out" cedono poi il posto a un clima più grave, dalle tinte gotiche. "What the Water Gave Me" è oscura, febbrile, viscerale, caotica e fa riferimento a due tormentate icone femminili della cultura: il titolo è un omaggio a un’opera di Frida Kahlo mentre il testo trae ispirazione dal suicidio della scrittrice inglese Virginia Woolf. Elemento chiave l’acqua, la stessa che ha accolto fra le sue braccia il corpo dolente della Woolf, e il brano stesso sembra  liquefarsi a colpi di chitarra e percussioni.

Se è normale rimanere basiti di fronte la monotonia della ballata "Never Let Me Go" e la scipitezza del soul di "Lover to Lover", non si può non apprezzare l’ascolto di "No Light, No Light", accompagnata nel video da forti immagini esoteriche. Il pezzo è un fascinoso sabba ricamato sulla dicotomia bene-male: da una parte vocalizzi angelicati alla Kate Bush, arpe fatate, un organo e un coro come strappati per un attimo ad una processione religiosa, un amore indissolubile, dall’altra battiti d'ali, chitarre tetramente sfrigolanti, un misterioso amante dagli occhi vacui e senza anima (No light, no light in your bright blue eyes), un rutilante e macerato acuto di Florence della durata di quasi quindici secondi.

E dopo la degustazione degli echi lugubri e orchestrali di "Seven Devils" e dei ritmi tribali stile Bjork di "Heartlines" che seguono al singolo "No Light, No Light", emerge, in tutto il suo glorioso sfarzo barocco, "Spectrum". Si tratta di un’altra perla dell’album: un pop alcolico denso di orpelli orchestrali e sfolgoranti beat che suona come una dance catartica (non a caso la canzone è stata oggetto di remix da parte di Calvin Harris), intrecciata da voci stregate.

L’album è pressoché finito ma si possono ancora menzionare per bellezza la muliebre poesia di "All This and Heaven Too" e lo swing tutto dark di "Bedroom Hymns" dell’edizione deluxe.

Ceremonials è un album da consigliare, un mix di spiragli di luce e sussurri infernali in grado di tener sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore. Tuttavia con questo secondo album i Florence + the Machine permangono radicati ai canoni stilistici che avevano contraddistinto il primo esordio. Gran parte delle canzoni di Ceremonials appaiono infatti mutuare: o la leggerezza vibrante della hit "Dog Day are Over", o il sulfureo incedere di "Drumming Song", o ancora l’impetuosità dei beat della lisergica "Cosmic Love".

Si spera dunque che la Macchina torni ma con una dose maggiore di sperimentalismo e innovazione, pur avendo fatto con questo secondo album un bel lavoro.

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Dr.Paul alle 0:23 del 14 agosto 2014 ha scritto:

c'è qualche passo falso ma tutto sommato buon disco !