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R Recensione

8/10

Hikaru Utada

Deep River

- L' “asse” nippo-americano

Esordire con un riassunto “per tappe” dell'influenza della musica americana su quella giapponese post World-War II può apparire impresa improba, viste le dimensioni e i caratteri variegati dell'imprinting. A spingerci verso questa decisione è stata, però, una questione di necessità. E la necessità, consiste nel fornire al lettore una (striminzita) serie di strumenti grazie ai quali rapportarsi, qualora lo volesse, a una realtà musicale troppo spesso ignorata, ridotta a stereotipo, oppure conosciuta per sommi capi o per singole scene che più si confanno all'appassionato di rock occidentale (il japrock dei '70s, la pluralità di manifestazioni nota come japanoise) quando non ai palati più avantgarde (movimenti pseudo-avant basati su aria fritta come l'onkyo). Perché se è innegabile che il Giappone sia stato colonizzato da tutti i possibili sottoboschi di matrice anglosassone, dal rock psichedelico all'hardcore punk fino al grindcore, alcune delle realtà nipponiche più avvincenti sono sbocciate proprio nel panorama mainstream, capace di fagocitare spropositate quantità di informazioni adattandole al diverso contesto e a specifiche esigenze estetiche (o, all'inverso, capace di riadattare parzialmente il contesto per renderlo “recettivo” ai nuovi input esterni). Rileggere e decontestualizzare la musica a stelle e strisce quindi: una prassi che ha segnato più volte il cammino della musica britannica, dal Northern soul all'epopea rave, ma che in Giappone - magari in forma meno estrema – ha scandito gran parte delle fasi del j-pop, accompagnandolo fin dalla culla.

Per quanto paradossale, la fascinazione del Sol Levante per i modelli musicali statunitensi ha fortissime motivazioni storiche alla base. In seguito all'occupazione americana dopo il secondo conflitto mondiale, la popolazione giapponese è entrata infatti decisamente più a contatto con gli usi e i costumi yankee piuttosto che con quelli del Vecchio Continente, motivo per cui, nel corso dei decenni successivi, e specialmente con l'esplosione dei più disparati linguaggi rock, la loro musica ha finito con l'avere un impatto maggiore sulla gioventù del Sol Levante rispetto ai pur amatissimi Beatles o Pink Floyd. Non stupisce, pertanto, che il mercato discografico nipponico dei 50s e dei 60s abbia visto un lento ma inarrestabile ridimensionamento del pop tradizionale kayōkyoku ed enka, spesso soppiantato, nei gusti del pubblico giovanile, da fenomeni d'importazione quali rokabirī, eleki, Group Sounds, fōku. Nel 1969 l'approdo del musical "Hair" ha infine costituito la valvola di sfogo per la controcultura giapponese, in un rigurgito modernista che avrebbe marchiato a fuoco tutta la prima metà della decade successiva. E se durante gli anni Ottanta il predominio americano si attenuerà, vuoi per la nascita di fenomeni quali j-fusion e visual kei, vuoi per le britanniche infiltrazioni post-punk e synth-pop che, opportunamente rivoluzionate nella semantica Yellow Magic Orchestra, costituiranno le basi dell'electropop giapponese come lo conosciamo oggi, a partire dai 90s il ritorno di fiamma sarà impetuoso e fuori di controllo (non a caso ciò coinciderà con il primo boom del j-pop a tutto tondo).

Dalla "svolta" A.O.R. di una vecchia volpe delle classifiche come Yumi Matsutoya nel suo "Gates Of Heaven" (primo disco nella storia della discografia giapponese a raggiungere i due milioni di copie), all'ascesa rapidissima di band come i hard-rockers B'z e i Mr. Children (autori questi ultimi di un pop-rock decisamente più morbido nelle forme), passando per i Chage And Aska (all'apice della popolarità nei primi anni Novanta) e i ZARD, il panorama mainstream giapponese d'inizio decennio pullula di gruppi e cantanti che si rifanno agli scenari rock e pop-punk americani, tant'è che le pochissime voci fuori dal coro (vedasi ad esempio i primi album dell'esuberante Chara) ancora sono legate a un immaginario di stampo new-wave del decennio precedente, dal quale ancora sembra difficile slegarsi. Altrettanto vispo è il versante dance-pop, sul quale si stagliano prepotenti le figure del produttore-Re Mida Tetsuya Komuro (responsabile della diffusione capillare del suono eurodance) e delle sue protette, da Namie Amuro a Tomomi Kahala. Il movimento shibuya-kei (Pizzicato Five, Kahimi Karie, Cornelius, etc.) è l'eccezione che conferma la regola: quasi un mondo a parte, anche all'interno di uno scenario in rapida evoluzione come quello che vede il Giappone protagonista in tutta la prima metà degli anni '90, nonché fra i pochi momenti di rilievo nella musica pop nipponica ad avere avuto una forte eco anche in Occidente. All'appello, in tutto questo popò di scene e filoni, manca soltanto l'R&B, ed è proprio qui che entra in scena Hikaru Utada.

- Acque profonde

Non che prima della sua comparsa l'idioma urban fosse completamente ignoto in terra nipponica: a livello underground aveva cominciato a mostrarsi, insieme all'hip-hop, sin dall'inizio degli anni '90, e anche se il successo di band come le Speed, gli m-flo o i Chemistry era di là da venire, già parecchi nomi agitavano i sobborghi di Tokyo (Zeebra, per citare IL nome per eccellenza della scena hip-hop giapponese) e costruivano una scena che piano piano sarebbe esplosa. Ma anche grazie ai frequentissimi passaggi radiofonici dei brani di Toni Braxton, Aaliyah, TLC et similia i Giapponesi si erano “sintonizzati” in tempo reale con la realtà R&B statunitense; semmai mancavano l'appropriazione e la rielaborazione, ed è appunto su queste direttive che si basano i primi passi della Utada, divenuta in pochi anni una delle stelle più fulgide (nonché artista a tutto tondo) del firmamento j-pop.

E' lei infatti la principale indiziata per l'introduzione ad un pubblico generalista del contemporary r'n'b statunitense di fine Millennio: dapprima come timida quattordicenne, nel 1997, sotto le mentite spoglie di Cubic U, in un fallimentare tentativo di debutto negli States (il disco, Precious, vedrà la luce soltanto in madrepatria), in seguito col suo nome di nascita, compierà una rivoluzione copernicana che ha cambiato per sempre le dinamiche del pop giapponese. Comunque la si voglia prendere, senza un disco come "First love" (1999) non soltanto non sarebbero esistite tutte le stelline dell'urban che hanno imperversato in maniera incontrollata da allora in poi (il che non sarebbe poi stato un grande dramma, considerato il clima di stagnazione creativa che da anni attraversa la scena in Giappone, ancora ferma lì, al sound di quindici-sedici anni fa), ma probabilmente, lo strapotere di un Tetsuya Komuro avrebbe finito per furoreggiare ancora per molto, molto tempo. E' vero però che la storia non si fa coi se, e i 7 milioni e mezzo di copie vendute nel solo Giappone (oltre 10 milioni in tutto il mondo: cifra che lo incorona disco più venduto nella storia della musica asiatica) parlano chiaro. Riascoltato oggi resta comunque un'operina fin troppo piatta e derivativa, rilevante più sul piano dell'importanza storica che della bellezza intrinseca. Il classico Automatic, la giostra alla Waterfall (TLC) di B And C, gli sprazzi synth-funk che abbelliscono “Another Chance e la garage-house di Moving On Without You restano le uniche cose degne di rilievo, anche se nessuna di queste lasciava presagire sviluppi così clamorosi.

"Deep River" (2002) è in un certo senso lo spartiacque rispetto alla produzione più “R&B oriented” dei primi due dischi, un lavoro che è frutto di sintesi e metabolizzazioni di linguaggi, attitudini, contesti in apparenza antitetici. Con esso, la Utada inizia a prendere effettiva coscienza delle sue potenzialità di compositrice/arrangiatrice (non che non lo fosse di già, ma le capacità non erano ancora emerse, avvolte com'erano in un bavaglio emulativo spesso troppo soffocante) dando il via alla fase sperimentale della sua carriera, coronata nel 2006 da "Ultra Blue", suo capolavoro personale. Diversi sono comunque i fronti sui quali si concretizza lo "scarto" rispetto all'R&B calligrafico di "First Love" e “Distance” (2001), a cominciare dal procedimento di costruzione delle ritmiche: "cellulari", iper-sincopate, sospinte da una frazione circolare che si ripercuote in un gioco d'incastri, veri e propri mosaici di pattern sovrapposti (alcuni basati su percussioni tradizionali, come in Letters o A.S.A.P.). Anche quando il beat poi è un canonico four-on-the-floor (Traveling, il ritornello di Tokyo Nights), a infittire la trama sono i ghirigori di contorno, veri e propri loop accessori/ornamentali.

“Arrangiamento”, poi, è una parolina magica per comprendere non solo il disco ma il j-pop nel suo complesso: la mania per la soluzione bizzarra, per il timbro particolare, è una costante di grossomodo tutto il panorama pop del Sol Levante, anche quello più usa e getta come può essere il detestabile mondo idol. A maggior ragione il suo peso è tanto più consistente in “Deep River”, opera graziata da un netto dualismo nella concezione: da un lato figurano infatti la relativa ruvidezza degli strumenti a corda e i richiami a un immaginario stilistico più tradizionalmente nipponico, dall'altro danno invece bella prova di sé le trame sintetiche del pop d'inizio millennio. Kawano Kei (co-arrangiatore principale) e la Utada hanno lavorato a lungo sul bilanciamento di queste due spinte opposte, finendo col prediligere un'elettronica mai opprimente e infittendo, di per contro, un organico dove sfilano strumenti come violino solista, arpa, clavicembalo, oboe, archi dal respiro più classico, chitarre acustiche dal suono a tratti percussivo (quasi a mo' di shamisen), pianoforti barocchi (si ascolti Shiawase Ni Narou), e finanche un mellotron (le strofe di Sakura Drops). A preservare il risultato dal sovraccarico sonoro garantiscono comunque i produttori Akira Miyake e Teruzane Sking (significativa la rinuncia a input esterni, specie dopo le recenti collaborazioni con pesi massimi del mainstream americano come Darkchild e la storica coppia Jimmy Jam & Terry Lewis) i quali, coadiuvati dalla stessa Utada, amalgamano con raffinatezza le diverse anime del sound, concedendosi pure qualche vezzo eccentrico (il riff di chitarra elettrica “trattato” in Uso Mitai na I Love You, peraltro efficacissimo).

Necessario un cappello per la peculiare costruzione delle melodie: la loro concezione, riflesso di una marcata dimensione intimistica/sofferta, porta ad un songwriting più coeso e quasi "autoriale", dove si prediligono tonalità minori e i cambi di accordo a scendere (forse il culmine del nuovo corso in fase di scrittura è la corale Hikari), eppure già informato di quel peculiarissimo senso dell'armonia che Hikaru continuerà a sviluppare nei due dischi successivi. Di pari passo, la voce appare come epurata dal melisma, svincolata da ogni orpello tipicamente black, finalmente pronta a entrare in una dimensione drammaturgica nella quale più risalto hanno modalità espressive imparentate con enka (Keiko Fuji, madre di Hukari, è stata una popolarissima cantante enka) e kayōkyoku. Il tutto senza sacrificare l'eleganza del fraseggio, le mille sfumature di un canto che si fatica a non definire – e sia detto con la minor enfasi possibile – prodigioso.

E prodigioso lo è senz'altro "Deep River", considerato il notevole salto di qualità rispetto ai due precedenti lavori e i tempi richiesti per la scrittura e la registrazione. Realizzato in poco più che la metà del tempo richiesto per “Distance” (coi futuri classici Final Distance e Traveling a far la comparsa sugli scaffali rispettivamente a quattro e otto mesi dall'uscita del secondo full-length), il lavoro, sotto ogni aspetto, non soltanto è prova di reale statura artistica, ma va ben oltre, diventando in brevissimo tempo una significativa, insostituibile pietra angolare del pop giapponese del Nuovo Millennio. Tempo quattro anni, e sarà la volta di "Ultra Blue" a confermare l'assoluta caratura della Utada (senza dimenticare la bizzarra, originalissima esperienza americana a nome "Exodus"): un tuffo in questo fiume profondo resta però l'esperienza più illuminante per comprendere l'appassionata sensibilità di una vera regina della musica con gli occhi a mandorla, pecora nera e al contempo parte integrante di uno scenario che lei stessa ha contribuito a costruire, e non in minima parte.

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