Lana Del Rey
Honeymoon
Ecco Lana Del Rey (il personaggio) abbandonare definitivamente il corpo di Lizzy Grant e divenire pura astrazione, diva felliniana, allucinazione falsamente solare/positiva fatta della stessa pasta di un altrettanto falso Mulholland Dr. girato negli anni '50, irrealisticamente proiettata in un microcosmo di riferimenti culturali/visivi/sonori ormai talmente distante dalla nostra idea di presente da apparire, almeno ai teenager che abitano l'emisfero occidentale, non tanto retrò quanto addirittura arcaico, per non dire fantasy. We both know that it's not fashionable to love me canta Lana su Honeymoon (canzone), che di Honeymoon (album) è incipit e - come sentenziato con acume dalla stessa Del Rey - ending al tempo stesso: concetto che informava già Born To Die, il quale però catturava l'epocale agganciandosi alla contemporaneità, facendosi anche specchio deformato/appannato del nostro tempo. Adesso la interpretazione di paesaggi, i richiami alla mitologia e al costume americani, le scene d'amore da pellicola usa e getta, le strisce a fumetti, i romanzi da spiaggia, il substrato pulp, ecco questo intero pacchetto diventa necessità coreografica, perde ogni seppur fragile legame con il reale e sale alla dimensione del sogno.
L'intricata Title Track spiega meglio di mille discorsi come stiano le cose, musicalmente e liricamente (Dreaming away your life...). Nella sua solennità/tragicità austera eppure magniloquente, da requiem hollywoodiano screziato d'archi (partitura ingegnosa come poche, degna dei fasti di uno Scott 3 di Mr. Walker), Honeymoon è l'estendersi indefinito - perciò staticità pulsante - di un attimo congelato nella mente dei protagonisti, magari Bonnie e Clyde giusto un secondo prima di essere crivellati dalle pallottole, colti a sognare una luna di miele nella consapevolezza della fine (There are violets in your eyes /There are guns that blaze around you / There are roses in between my thighs / And a fire that surrounds you). L'interpretazione di Lana è semplicemente pura, archetipica, il canto del cigno (?) di un'interprete che ormai ha accumulato trucchi su trucchi, capace di accarezzare in poche battute l'impressione di una Julie London per poi distendersi nel canto in multitraccia (espediente portato al parossismo nel corso dell'album) che, dalla spensieratezza corale della California anni '60, s'oscura in messianica deriva allucinatoria senza tempo né luogo (il dark blue ripetuto a mò di mantra).
Quando procede sulla falsariga di questo capolavoro, Honeymoon brilla di una luce peculiarissima, cupa, l'ideale per un funerale in pompa magna dove tutti gli invitati sono stoned e la defunta (strafatta pur'ella) si canta l'ode funebre nell'indifferenza generale. Music To Watch Boys To aggiunge un minimo di consistenza ritmica, con percussioni e flauto peruviano a incorniciare la dissipazione, laddove God Knows I've Tried è cicaleggio twang fattosi lied classico su un testo che pare - fascinazione che Lana ha sempre avvertito e qui applicata al suo personaggio - l'ultima lettera di una diva suicida (I feel free when I see no one / And nobody knows my name ( ) / Sometimes I wake up in the morning / To red, blue and yellow skies / It's so crazy I could drink it like tequila sunrise / Put on that Hotel California / Wear my blinders in the rain / I've got nothing much to live for / Ever since I found my fame). Terrence Loves You è, del suo repertorio, una delle torch song pianistiche più raffinate (vale ogni centesimo di Videogames, pur non potendo condividerne l'alone mitico) e commoventi (You are what you are / I don't matter to anyone / But Hollywood legends will never grow old), avvolta dal lacrimare mai invadente di un sassofono e tastiere lontanissime delle quali s'ode giusto un eco.
Queste prime quattro canzoni, esattamente nella sequenza in cui appaiono su disco, da sole potrebbero costituire un Ep ideale da 8/10, fatto e finito. Per il terzetto successivo la faccenda cambia, senza però latitare in quanto ad evocatività e, soprattutto, senza riciclare palesemente lo stile del passato. A differenza di quanto accadeva su Ultraviolence, dove gli episodi più ritmati sembravano presi di forza da Born To Die e buttati lì a casaccio per movimentare le cose, su Honeymoon siffatti momenti dimostrano quanto la brama narcolettica di Lana abbia contagiato pure i suoi rari tuffi nel ritmo. Al narco-swing, insomma, si sostituisce il narco-trap. I beat sono quasi accennati (quello di Art Deco, indiretta dedica all'amica Azealia Banks, è appena percettibile, oltre che smussato da bollicine di synth e interventi jazz), melmosi, sommersi nel mix, contornati da dettagli che conferiscono ai pezzi venature stravaganti (i ghirigori di fiati su High By The Beach a insaporire d'exotica, i cori spiritati e le chitarre oscillanti di Freak a delineare una haze percettiva nella quale perdersi è una goduria).
I veri nei dell'album sono altri, e si notano nell'ultima tranche, quella sì meno ispirata nelle melodie e con arrangiamenti forse troppo in linea con lo stile del 2012: le seppur piacevoli Religion, The Bleakest Day, Salvatore (Lanona nostra che guarda al fascino di Vacanze Romane - oltre che al proprio vissuto - e scrive un pezzo sull'italianissimo ex boyfriend) sono davvero troppo BTD, non riuscendo né a porsi fuori dal tempo, in quella dimensione altra di cui si scriveva, nè a confondere le acque. E l'auspicato risollevarsi/abbattersi finale, con 24 prima e la fatalistica Swan Song poi (immaginate Angelo Badalamenti a costruirle sublime drammaturgia, Lana che entra in consonanza per mezzo di una parte canora minimale/indimenticabile), giunge con almeno un quarto d'ora di ritardo, concludendo - tralasciamo il divertissement innocuo della cover Don't Let Me Be Misunderstood - un disco che è già stato, esauritosi assai prima del timing effettivo.
"An ambient album for broken-hearted hipsters" scrive il Telegraph, frase prodiga di un'intuizione notevole (il richiamo all'ambient) e "rea" dello spiacevole perpetuarsi di stereotipi (gli hipster, ormai tirati in ballo per ogni uscita discografica che susciti un minimo di clamore). Da par suo, Lana Del Rey è sempre stata una mosca bianca nel panorama mainstream degli ultimi anni, ma ora si ha più che mai la certezza che abiti in una terra di nessuno. Dopo il mezzo passo falso - tanto commerciale quanto artistico, almeno per il sottoscritto - di Ultraviolence, era comprensibile la scelta di rimettere in primo piano l'alter-ego e tutto l'apparato iconografico di circostanza. Quello che sorprende, semmai, è come il personaggio Lana Del Rey riprenda definitivamente vita, più fumettistico che mai, essenzialmente per morire. Beh, ma era tutto scritto si dirà. Verissimo. D'altronde, già all'epoca di Born To Die in molti si gingillavano sull'appeal necrofilo di una teen-diva maledettista dal destino segnato anzitempo, una popstar vivente della quale era possibile apprezzare il lato post-mortem in anticipo. Eppure pochi, a mio parere, si aspettavano il concretizzarsi di questa bramata/temuta morte "in diretta", un cosciente sparire dal mondo (Let's leave the world for the ones who change everything / Nothing could stop the two of us / Let's just get lost, that's what we want / And I will never sing again / And you won't work another day ( ) / It will be our swan song), un sottrarsi alla luce dei riflettori avvenuto senza il clamore di uno Ziggy Stardust ma, come nel caso specifico, dovuto forse alla noia o per consentire a Lizzy Grant, ormai varcata la soglia dei trent'anni, di passare a una nuova fase della sua carriera (o di fare tutt'altro, chissà...).
A meno di improbabili remix dell'ultim'ora, Honeymoon potrebbe, in effetti, tramutarsi in un suicidio commerciale. Ritornano, sì, alcuni elementi familiari del sound e della composizione, ma solo per essere affogati nel kitsch o trasfigurati strutturalmente secondo modalità quasi avantgarde. Di quell'apparato di segni capace d'infiltrarsi, subdolo e trasversale, nei gusti del pubblico e nel background di diverse star o pseudo-tali (da Rihanna a Lorde, fino all'ultima, sorprendente Miley Cyrus), ci viene presentata un'ulteriore sofisticazione, sia delle linee melodiche che dell'apparato armonico, ancora una volta assai poco in linea col concetto di pop giovanile. Ironico che sia proprio il consueto collaboratore Rick Nowels, subentrato ad Auerbach anche come produttore per far riguadagnare punti a Lana presso il pubblico generalista, a sigillare questa discrasia. Per un certo periodo ha addirittura circolato la voce di una possibile partnership con Mark Ronson, risoltasi in due giorni di registrazioni a vuoto. Magari con lui Honeymoon sarebbe stato meno triste e lezioso, forse anche più interessante, ma mai altrettanto definitivo. E se è vero (ed è vero) che con i se e con i ma non si fa' la storia, è altrettanto innegabile che ora l'interrogativo più pressante riguardi non ciò che già è stato, ma ciò che sarà: what now?
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