R Classifica 2014 di Matteo Castello

Ruins

9. Grouper
Ruins (Kranky 2014)

Liz Harris è finalmente giunta al suo lavoro definitivo. In Ruins viene cristallizzata (anzi, distillata) in otto gemme l'esperienza di una lunga carriera. Tracce precarie che si snodano in bassa fedeltà, tra lo scricchiolare del mondo tutto intorno, il gracidare delle rane, le intrusioni più o meno ambientali. Eppure al centro ci sono il piano e la voce di Harris (mai così essenziali), che erigono melodie spettrali eppure intensissime. Di nuovo, però, lo spazio determina la grana dei suoni, partecipando allo svolgimento con le risonanze generate dagli oggetti, dalle pareti, dai vetri. Un vero gioiellino.
Benji

6. Sun Kil Moon
Benji (Caldo Verde 2014)

Un album così bello Kozelek non lo faceva dai tempi di “Ghosts of the Great Highway”. Un album di famiglia, un testamento, dove rivivono -debitamente romanzati- personaggi, storie, drammi, frammenti biografici di ogni sorta. Il livello della narrazione è altissimo, da grande prosa americana: da quelle che sono vere e proprie confessioni nascono riflessioni collettive di grande impatto. La musica, poi, raggiunge vertici inaspettati: dagli arpeggi dolenti di “Carissa” alle atmosfere cupe e claustrofobiche di “Richard Ramirez Died Today”, Kozelek riesce a dar vita a melodie struggenti come niente fosse, con un'eleganza e un'autorevolezza invidiabili.
Luminous

5. The Horrors
Luminous (XL Recordings 2014)

Padroni indiscussi della scena neo-psichedelica inglese, gli Horrors confermano il loro ottimo stato di salute con un disco strepitoso, che rinnova una proposta, finora, mai arrestatasi. Il sound si arricchisce di una presenza massiccia di componenti electro che vanno ad aggiungere scintillanti cromature alle nebulose soniche di cui la band è somma domatrice. Composizioni in continua espansione, stratificazioni sovrapposte di chitarre e tastiere trattate, manipolazioni di sequencer, squadrature kraute e aperture su spazi siderali. Gli Horrors sono i nuovi corrieri cosmici.
We May Yet Stand A Chance

4. The Heartbreaks
We May Yet Stand A Chance (Nusic Sounds 2014)

Il secondo disco degli Heartbreaks, dopo un esordio-manifesto di intenzioni indie e jangle, è un concentrato di grandeur pop. “Big music”, per qualcuno. Gli inserti western e country, gli arrangiamenti magniloquenti, gli svolazzi di archi, le scenografie spagnoleggianti, i richiami letterari (Hemingway su tutti), uniti alla padronanza assoluta dei propri mezzi, permettono alla band di Matthew Whitehouse, Ryan Wallace (novelli Morrisey e Marr?), Christopher Deakin e Joseph Kondras di non scadere mai nel kitsch. Il risultato è uno dei lavori più sorprendenti e creativi degli ultimi anni.
Ryan Adams

3. Ryan Adams
Ryan Adams (Pax Am 2014)

L'America di Ryan Adams è inquieta e provinciale ma dalle larghe vedute, intimamente conservatrice ma ancora capace di far leva su slanci universalistici. E il suo ennesimo disco è un piccolo gioiellino di cantautorato heartland rock che, pur facendo leva su un linguaggio riconoscibile (che va dallo Springsteen più classico all'alt-country, passando per il folk), si connota di un'espressività del tutto contemporanea, in grado di connettersi con la sensibilità di un'intera generazione. Ryan Adams ci parla di spaesamento, di perdita, di parole che non vengono fuori. Parla però anche di rivalsa e di averne piene le palle di arrendersi. E lo fa creando un'epica dimessa, intima. Lo fa con la stazza di un grande autore. Poco da fare, Ryan Adams ha sfornato un classico.