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R Recensione

5,5/10

The Chills

Scatterbrain

Un fenomeno di cui bisognerebbe tener conto quando si vuole cercare di comprendere il variegato volto musicale di questi neonati anni Venti è come alcune band storiche, che hanno attraversato trasversalmente molte stagioni, interpretano il presente pubblicando oggi un disco. E, come è facile intuire, le posizioni possono essere molto diverse: si possono avere esempi di conscio o inconscio immobilismo, come se il suono di certi autori fosse rimasto pressoché invariato, fedele a una storia monumentale o antiquaria, oppure di trasformazione, sia nel senso dell’adattamento quanto quello, ben più difficile e ben più interessante per chi ascolta, del rinnovamento.

È quello che è accaduto ai The Chills, band neozelandese tra i maggiori esponenti del cosiddetto Dunedin, genere nato alla fine degli anni Settanta (la band lavora sin dall’inizio degli anni Ottanta) proprio in Nuova Zelanda, influenzato chitarristicamente da stili classici come quello degli Stooges o dei Velvet Underground (se non addirittura i Byrds) a cui si aggiunge buona parte dell’alternative rock e del pop rock degli anni Ottanta.

Il recente Scatterbrain non dovrebbe essere preso come esempio per discutere dello stato dell’arte del genere e di questo tipo di sperimentazioni oggi, perché di fatto non porta niente di nuovo alla discussione. Il disco, banalmente monotematico sin dagli esordi di Monolith, rappresenta una funzione continua piuttosto tediosa sia dal punto di vista strumentale che testuale, con punti estremamente melensi (Destiny e la pianistica Caught in my eye). Parentesi sono brani più ritmicamente riusciti come Worlds within worlds, che però niente aggiungono a groove che ascoltiamo da molti anni, o lo xilofonico Little alien, che ricorda vagamente un brano dei primi Ottanta.

Per il resto un rotolacampo.

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