Julia Brown
To Be Close To You
Cè stato un tempo in cui passavo gran parte degli interminabili pomeriggi invernali scrivendo sul mio diario di scuola frasi estrapolate dalle canzoni dei R.E.M. o degli Skunk Anansie, facendo lamore con immagini rubate ai settimanali scandalistici di mia nonna, sognando di diventare uno sportivo professionista e aspettando il Natale, la Pasqua e lestate, solo per il gusto di vederli terminare e poi ricominciare lattesa. Lalternativa era cercare di entrare nella mente contorta di quello stronzo di Aristotele, dare la colpa ad un errore di stampa quando lennesima disequazione non riusciva o maledire la prof. di latino, acida perché zitella, non cè bisogno di dirlo (É che non cha na vita sessuale, dicevamo in coro; ma chi di noi ce lavesse, a quei tempi, rimane un mistero), che continuava ad affibbiarci versioni dellostico Tacito, piuttosto che del mite Cesare. Ecco, cè stato un tempo in cui, avessi conosciuto i Julia Brown, sarebbero state loro le frasi che avrei scarabocchiato sul mio diario, aspettando che facesse sera, che arrivasse lestate o che finisse ladolescenza.
Julia Brown non è una folksinger, ma la band, originaria del Maryland, messa su dal giovane cantautore e polistrumentista Sam Ray, e questo To be close to you è il suo album di debutto (sebbene lo stesso Ray possa vantare lesperienza di leader nel gruppo Teen Suicide), uscito qualche mese fa per Birdtapes, casa discografica (?) che ha allattivo cinque o sei uscite (!), per lo più digitali.
La musica dei Julia Brown è una miscela - inconcludente e inconsistente - di indie pop, bedroom pop e lo-fi pop, sebbene la definizione di bassa fedeltà paia quasi un eufemismo, un riconoscimento di qualità di suono che il disco non può e non vuole vantare. Registrato su cassetta e ormai reperibile solo su formato digitale, lalbum presenta otto brani - della durata media di due minuti, per un totale di circa un quarto dora - acerbi, selvaggi e ruvidi, ma, al contempo, delicatissimi, così ancorati a ricordi e piccoli momenti delladolescenza o della prima giovinezza (queste le parole di Im falling in love, incantevole brano che inaugura la scaletta e si fa manifesto dellalbum, nel suo svelare assenze e solitudini: Walking back to my car / I saw you standing by the wall / I wanted to ask your name / but Im too shy and now I wont see you again / If I was a different kind of guy / Id write you a song with a hook thats like / Oh my god Im falling in love), da sembrare quasi dei bozzetti da cui Morrisey è partito per scrivere, poi, le sue storie.
Il suono è perennemente sporco, la voce di Ray sempre sul punto di spezzarsi; le chitarre tratteggiano, timide, due accordi elementari (ma stupefacenti per appeal melodico) e una viola fa capolino, di tanto in tanto, per ingentilire il tutto. A volte sembra di ascoltare il primo materiale, dimenticato in un cassetto perché troppo primitivo, di un Elliott Smith o quello di certi Sebadoh poco inclini al cazzeggio e molto allautocommiserazione, dei Beat Happening in stato semicatatonico o, ancora, il primo, stralunato dischetto dei Pants Yell (band che avrebbe meritato tutta unaltra visibilità), Our horse call.
Preferire un brano ad un altro significherebbe fare un torto ad un lavoro che proprio nella sua omogeneità (e inscindibilità dei singoli episodi) recupera la sua forza costitutiva. Ognuno potrà trovare la canzone più vicina alla propria sensibilità nellirresistibile circolarità melodica della trama chitarristica di Library o nel walzerino giocattoloso, profumato di whiskey, di Virginia, nella svogliata I was my own favorite tv show the summer my tv broke, col suo arrangiamento inventivo - e sorprendente, in considerazione degli standard del disco - di viola, violoncello, harmonium e glockenspiel o nel fragile intimismo lirico (I didnt see you / I wanna be you / I wanna be like you / I took my clothes off / I put a wig on / Ill never be like you / Im signing your name / to be close to you / I ruined my veins / to be close to you), ancor prima che musicale, di quella dolorosa To be close to you che dà il titolo all'album.
Otto piccole gemme grezze, per tirare le somme, di urgente espressività e malinconica, ruvida bellezza; otto brani che, in chiaroscuro, si nutrono della mite poesia del quotidiano, sempre in bilico tra accettazione del dolore e speranzosa ingenuità. Un disco che dura un niente e lascia il segno, come quel primo bacio, dato più per curiosità che per piacere, come quello sguardo poggiato, furtivamente, sulla persona di cui ci siamo innamorati, ma che non sa nulla del nostro trasporto e mai lo saprà, proprio come tutte quelle cose insignificanti attraverso cui passa una buona parte della nostra stessa adolescenza.
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