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R Recensione

8/10

Elliott Smith

Figure 8

Elliott Smith era uno di quegli artisti baciati da un rarissimo dono: la capacità di non pubblicare dischi brutti nemmeno volendolo. Anche un album come “Figure 8”, forse il meno riuscito nella sua scintillante discografia, considerato dai più un passo falso, ci sembra opera comunque di vaglia.

Fu il secondo album pubblicato per i tipi della Dreamworks: come già il precedente “Xo”, fu un lavoro di sintesi. La sfida consisteva nel riuscire ad ibridare quella ellittica e cristallina scrittura di estrazione indie che aveva illuminato lavori monumentali come “Roman Candle” o “Either-Or” con le aspettative del mainstream seguite alla nomination agli Oscar per “Miss Misery”. In altre parole, riuscire a inserire il suo inarrivabile lirismo, intimista e malato, in un tessuto strumentale più ampio e di dare un taglio più classico alle composizioni, tenendo conto della lezione dei massimi modelli in ambito pop, ossia i Beatles e i Beach Boys.

A mio avviso tale sfida sarebbe stata vinta perfettamente nel lavoro postumo “From A Basement On The Hill”, stilisticamente superbo in tal senso e reso ancora più toccante dai foschi presagi dell’imminente suicidio del suo autore. A “Figure 8” è tuttavia da ascrivere un eclettismo davvero sgargiante, in grado di fendere arrangiamenti in alcuni casi leggermente sopra le righe e un songwriting in grado, nonostante un paio di cadute di tono, di scollinare vette invalicabili per buona parte dei contemporanei di Smith.

Dissipa ogni dubbio in merito l’ascolto della prima traccia, “Son of Sam”: uno sfolgorante piano honky-tonk e chitarre lievemente lisergiche accompagnano una limpida melodia beatlesiana forgiata da quella voce, fragile e toccante come sempre, intenta a dipingere un consueto e degradato scenario metropolitano. Magnifica è anche “Junk Bond Trader”, quasi un estratto da “Abbey Road”, con lussureggianti intarsi di tastiere e slide guitar e un testo che mescola abilmente scadenti istantanee di un’America tossica e il noto passato eroinomane di Elliott. Meno riusciti invece sono gli arrangiamenti di”Easy Way Out” e “COLOR BARS”, che sembrano avvitarsi in uno stereotipo.

In alcuni frangenti, l’impianto sonoro è così maestoso da rasentare il fiabesco: “Everything Means Nothing To Me” col suo piano struggente, “In The Lost And Found” con divine laminature d’organo e mellotron che sfociano in una coda psichedelica straniante e “Happiness” con la sua stupefacente grandeur ammaliano e intarsiano perfettamente lo spleen smithiano, come di consueto composto da disperati sussurri e tormentate relazioni interpersonali. L’equivalente emotivo di una corsa nell’ultimo treno della notte, o di una mano posata su un fuoco acceso per vedere se brucia.

Emergono anche schegge dal passato di Elliott: sia l’assalto reminiscente il grunge degli Heatmiser in “LA”, sia alcune nude ballate che ricalcano discretamente l’inarrivabile archetipo dei primi album, come in “Everything Reminds Me Of Her”, “Somebody That I Used To Know” o “I Better Be Quiet”. Si nuota su acque ancora profonde su “Pretty Mary K”, romantica con la R maiuscola e solcata da un organo sottratto clandestinamente ai Procol Harum, mentre la cadenzata “Wouldn’t Mama Be Proud?” disegna traiettorie pop semplicemente perfette.

Apice dell’album è pero certamente la sontuosa “Can’t Make A Sound”. Un pezzo di sconvolgente intensità, le cui cupe orchestrazioni anticipano alcuni dei migliori momenti di “From A Basement On The Hill”. Versi come “I have become a silent movie / the hero killed the clown /I can’t make a sound” oppure “the slow motion moves me /the monologue means nothing to me/ bored in the role, but he can't stop /standing up to sit back down or lose the one thing found /spinning the world like a toy top /till there's a ghost in every town” forgiano un’angoscia opprimente, fino a quando una grandiosa accelerazione porta la tensione al suo climax, suggellata da un verso come “Why should you want any other when you're a world within a world?”.

Il solito Elliott Smith, ineguagliabile generatore di inquietudini e spaesamento in chi lo ascolta, per poi chiudere il sipario con il fumoso fraseggio pianistico di “Bye”: un lungo addio, verso il silenzio profondo.

V Voti

Voto degli utenti: 8,2/10 in media su 14 voti.
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rael 9/10
krikka 9/10
ThirdEye 8,5/10

C Commenti

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PierPaolo (ha votato 8 questo disco) alle 10:58 del 9 febbraio 2007 ha scritto:

Perdo molto?

Sempre sentito nominare ma mai approfondito la conoscenza di questo artista. E' grave Junio?

DonJunio, autore, alle 11:30 del 9 febbraio 2007 ha scritto:

dipende

per me perdi tantissimo....se proprio devi iniziare a conoscere elliott, ti consiglio "either/or" cmq. ciao!

DonJunio, autore, alle 12:53 del 9 febbraio 2007 ha scritto:

il dipende ovviamente è relativo ai tuoi gusti..siccome in passato avevi definito "lagna" un pezzo di neil young, potresti trovare diverse lagne qui.. eheh..comquneu ti suggerisco di avvicinarti a elliott. ciao!

Marco_Biasio (ha votato 9 questo disco) alle 21:53 del 27 dicembre 2007 ha scritto:

Boh!

Per me, assieme all'esordio, questo è il migliore di Smith. Anzi, lo preferisco all'omonimo per quel suo organetto sbarazzino ("In The Lost And Found" e ancora di più "Son Of Sam"). Peccato, però, che tutti i migliori se ne vadano per primi...

boy_with_VU_tee (ha votato 7 questo disco) alle 16:40 del 10 aprile 2008 ha scritto:

Il cd più beatlesiano di Elliott

Ma non il migliore, a mio modo di vedere. Gli preferisco di gran lunga i 3 album del periodo 95/98 e anche il postumo From a basement. In ogni caso, album sempre ad alti livelli, com'è sempre stato nelle corde di Smith, i cui album si dividono in belli e bellissimi.

PierPaolo (ha votato 8 questo disco) alle 15:25 del 16 gennaio 2009 ha scritto:

Meglio tardi che mai Junio

Me lo sono alfine procurato questo dischetto, e trovo che valga alla grande i dieci euri sborsati. Si avverte subito, dai primi trenta secondi, l'intensità e la genialità e la comunicativa musicale dell'artista (altro che Helpless eheh). Tempo sei mesi e possiederò la sua discografia essenziale. Grazie Don.

Utente non più registrato alle 22:12 del 10 dicembre 2009 ha scritto:

L'album più "felice" (emotivamente parlando) che Smith abbia mai scritto.

tramblogy (ha votato 10 questo disco) alle 21:28 del 11 ottobre 2010 ha scritto:

ti voglio bene

Marco_Biasio (ha votato 9 questo disco) alle 23:40 del 24 ottobre 2016 ha scritto:

Lo riascoltavo stasera. Everything Reminds Me Of Her è lacerante. Confermo il mio giudizio di nove anni fa: per me il migliore di Elliott. Che rabbia e che dolore, a vedere un talento del genere volare via, così...

fabfabfab alle 10:03 del 25 ottobre 2016 ha scritto:

Sono d'accordo con te. E' un pezzo incredibile. Io ci ho sempre trovato un legame curioso con la successiva: da "tutto mi ricorda lei" a "niente ha significato per me", con quell'orchestra che sfuma...

nebraska82 (ha votato 8,5 questo disco) alle 14:01 del 25 ottobre 2016 ha scritto:

un po' come la sequenza "everybody cares, everybody understands" e "i didn't understand" che chiude il disco precedente. Lavoro splendido che tiene insieme mirabilmente tutte le anime di Elliott ( da quella piu' scarna e folk a quella piu' barocca), "son of sam", "happiness" e "can' t make a sound" le mie preferite.