Elliott Smith
Figure 8
Elliott Smith era uno di quegli artisti baciati da un rarissimo dono: la capacità di non pubblicare dischi brutti nemmeno volendolo. Anche un album come Figure 8, forse il meno riuscito nella sua scintillante discografia, considerato dai più un passo falso, ci sembra opera comunque di vaglia.
Fu il secondo album pubblicato per i tipi della Dreamworks: come già il precedente Xo, fu un lavoro di sintesi. La sfida consisteva nel riuscire ad ibridare quella ellittica e cristallina scrittura di estrazione indie che aveva illuminato lavori monumentali come Roman Candle o Either-Or con le aspettative del mainstream seguite alla nomination agli Oscar per Miss Misery. In altre parole, riuscire a inserire il suo inarrivabile lirismo, intimista e malato, in un tessuto strumentale più ampio e di dare un taglio più classico alle composizioni, tenendo conto della lezione dei massimi modelli in ambito pop, ossia i Beatles e i Beach Boys.
A mio avviso tale sfida sarebbe stata vinta perfettamente nel lavoro postumo From A Basement On The Hill, stilisticamente superbo in tal senso e reso ancora più toccante dai foschi presagi dellimminente suicidio del suo autore. A Figure 8 è tuttavia da ascrivere un eclettismo davvero sgargiante, in grado di fendere arrangiamenti in alcuni casi leggermente sopra le righe e un songwriting in grado, nonostante un paio di cadute di tono, di scollinare vette invalicabili per buona parte dei contemporanei di Smith.
Dissipa ogni dubbio in merito lascolto della prima traccia, Son of Sam: uno sfolgorante piano honky-tonk e chitarre lievemente lisergiche accompagnano una limpida melodia beatlesiana forgiata da quella voce, fragile e toccante come sempre, intenta a dipingere un consueto e degradato scenario metropolitano. Magnifica è anche Junk Bond Trader, quasi un estratto da Abbey Road, con lussureggianti intarsi di tastiere e slide guitar e un testo che mescola abilmente scadenti istantanee di unAmerica tossica e il noto passato eroinomane di Elliott. Meno riusciti invece sono gli arrangiamenti diEasy Way Out e COLOR BARS, che sembrano avvitarsi in uno stereotipo.
In alcuni frangenti, limpianto sonoro è così maestoso da rasentare il fiabesco: Everything Means Nothing To Me col suo piano struggente, In The Lost And Found con divine laminature dorgano e mellotron che sfociano in una coda psichedelica straniante e Happiness con la sua stupefacente grandeur ammaliano e intarsiano perfettamente lo spleen smithiano, come di consueto composto da disperati sussurri e tormentate relazioni interpersonali. Lequivalente emotivo di una corsa nellultimo treno della notte, o di una mano posata su un fuoco acceso per vedere se brucia.
Emergono anche schegge dal passato di Elliott: sia lassalto reminiscente il grunge degli Heatmiser in LA, sia alcune nude ballate che ricalcano discretamente linarrivabile archetipo dei primi album, come in Everything Reminds Me Of Her, Somebody That I Used To Know o I Better Be Quiet. Si nuota su acque ancora profonde su Pretty Mary K, romantica con la R maiuscola e solcata da un organo sottratto clandestinamente ai Procol Harum, mentre la cadenzata Wouldnt Mama Be Proud? disegna traiettorie pop semplicemente perfette.
Apice dellalbum è pero certamente la sontuosa Cant Make A Sound. Un pezzo di sconvolgente intensità, le cui cupe orchestrazioni anticipano alcuni dei migliori momenti di From A Basement On The Hill. Versi come I have become a silent movie / the hero killed the clown /I cant make a sound oppure the slow motion moves me /the monologue means nothing to me/ bored in the role, but he can't stop /standing up to sit back down or lose the one thing found /spinning the world like a toy top /till there's a ghost in every town forgiano unangoscia opprimente, fino a quando una grandiosa accelerazione porta la tensione al suo climax, suggellata da un verso come Why should you want any other when you're a world within a world?.
Il solito Elliott Smith, ineguagliabile generatore di inquietudini e spaesamento in chi lo ascolta, per poi chiudere il sipario con il fumoso fraseggio pianistico di Bye: un lungo addio, verso il silenzio profondo.
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