Brown And The Leaves
Landscapes
Un uomo, con la sua chitarra acustica. Più, rispettivamente, violoncello, tromba, piano Rhodes, basso. Eppure cè qualcosa che non mi torna: perché, se viene da Venezia, si inerpica con aria sconsolata, novello Buckley lagunare sperso nella campagna, su di una pila di covoni che hanno tutta laria di essere molto poco intimistico folk e ben più rustico country, assolutamente più georgico che elegiaco? Per ogni chiarimento a qualsiasi dubbio di stile naturalistico vi possa venire in mente, scrivere al signor Mattia Del Moro. O, se vi prende limbarazzo, ad uno degli altri cinque, riservati musicisti che compongono lensemble daccompagnamento si fa per dire, non si offenda nessuno del suo disco desordio. Messi assieme si fanno chiamare Brown And The Leaves ma, onestamente, se avessero voluto nominalizzare e ridurre lo pseudonimo a Brown Leaves, non credo che qualcuno avrebbe avanzato proteste formali, visto che il locus amoenus, il paesaggio da loro evocato è proprio quello frizzantino, malinconico e sentitamente settembrino degli autunni migliori della vostra vita.
Ora, coprite con la pala che vi ritrovate al posto della mano destra quellenorme sbadiglio mal celato e, piuttosto, drizzate bene le orecchie, giacché si è di fronte ad un corpus di tutto rispetto sorprendente, lo dico non da totale sprovveduto, per coesione, straripante vena melodica ed intuizione sonora a st(r)ati già piuttosto interessanti, considerato il vettore di spostamento ancora fermo ai primissimi metri di un lungo nastro rosso (o marrone?). Landscapes, nella fattispecie, è un buon tre quarti dora di citazionismo dalla sontuosa eleganza, con costruzioni in fingerpicking, mattoncini striati dintrospezione cantautorale, una sei corde tra le braccia per imbarcarsi sulla Mayflower ed un paiolo di influenze estere mescolate abilmente tra di loro. In queste occasioni si deve essere concisi, essenziali e sintetici, ma puntualmente non vi si riesce, ché sempre troppi sembrano i concetti da sviscerare e troppo poco adatto lo spazio per farlo. Cerchiamo di puntare un qualche ago magnetico. La malinconia di Brand New World arriva dritta dalle viscere di Elliott Smith, con più melodramma teso sugli archi e spruzzi di cangiante twee per xilofono che vibrano nel refrain. Still Awake, ancora, la scriverebbero ad occhi (soc)chiusi i Belle & Sebastian in una sbronza con Loney, Dear: la scrittura si fa poi più complessa e articolata, come nel caso di It Has Got To Be, con cataste di arpeggi raccolti in una crocchia vagamente psichedelica, o Fragments, sensibilità brit che confluisce in unelettrica coda sulla scia dello Sparklehorse di Vivadixiesubmarinetransmissionplot.
Non male, già. Ma, ve ne accorgerete presto pure voi, a citare singoli brani a dispetto di altri si corre il rischio di spezzare un cuore già abbastanza provato, a cui non bastano lo sbarazzino inciso per banjo di While The Waves, o la timida bossa di una Quiet Life In A Quiet Place comunque più caduca che esotica, per riprendersi dal dolce cullare in monta Geoff Farina di Just Let You Know, dallincrocio acustica/tromba per un vivace confronto di aromatico folk (Locked In A Cage, che ricorda Sam Duckworth) o Erasmus, bellissimo saltellare pop, con un pugno di accordi nella mano e la mestizia nel cuore: lideale per scorrazzare con una vecchia Panda, ai canonici ottanta allora, nubifragio che scuote i finestrini e cerchioni che sollevano vasche dacqua per highways sempre più lost.
Enjoy (?) with them.
Tweet