Herself
Herself
Il palermitano Gioele Valenti, critico musicale e strumentista acustico, ha in mente una stanza. Nessun cielo. Una stanza, proprio. Chiusa, calda, accogliente, come la sua terra. Di questa stanza egli rappresenta la figura principale, la sagoma che si accoccola al centro, il motore da cui si dipanano onde e vibrazioni, i mood di una canzone – un’unica canzone – destinata a ripetersi, con un balletto di minime variazioni tematiche, all’infinito. Attorno a lui un discreto accompagnamento ritmico, un robusto rinforzo d’archi, qualche distorsione. Valenti prende il microfono, e sussurra in inglese – ché in una stanza, specie se ovattata, l’elettricità è cacofonia al napalm. Un arpeggio segue l’altro, giustapponendosi con effetto orchestrale, senza fretta, in una catena ipnotica che tutto lascia trapelare, eccetto l’impressione di poter essere spezzata da un momento all’altro. Eppure “Strangler Who’s Me” sta lì, sotto i tre minuti, manifesto lo-fi (ma quanto lo-fi?) di una sensibilità tenue, spazialmente piccola, intensa quanto basta, Ringkomposition folk per loner e cuori in pena.
Su uno schema di semplice essenzialità, Herself – curioso pseudonimo dietro cui si nasconde l’egida solistica di Valenti, qui attorniato per la prima volta da un abbozzo di vera e propria band – proietta ansie ed intreccia filosofie quotidiane in un disco omonimo, il quarto, incredibilmente omogeneo e fedele a sé stesso. Fin troppo. Il gioco regge la candela quando, in “Here We Are”, il bello e tenebroso arrangiamento arty-psych per tastiere e drum machine scombina l’ostinato soliloquio voce e chitarra, o gli accordi solari di “Funny Creatures” squarciano il malinconico velo filtrato del cantato, disciogliendosi in rallentamenti lisergici che propri impreziosivano i Flaming Lips degli anni ’90 o, ancora, in “Outside The Church” l’acustica volteggia in un vuoto saturato dal fingerpicking e cullato sul vento dello splendido violoncello di Aldo Ammirata (coda strumentale di sicuro impatto) e, in “Sugar Free Punk Rock”, la chitarra aggiuntiva dell’ospite Amaury Cambuzat (Ulan Bator) proietta su tessuto noir, e chiusura in organetto, il filtro folktronico della grana melodica di base.
Poi, il diluvio. (Ri)cercata è, senz’altro, la volontà monotimbrica di esprimere più sfaccettature con un unico concetto: in questo contesto vanno inquadrate le due metà di “Tempus Fugit”, levitante e cinematografica la prima, contratta ed inquieta la seconda, con gli archi che tagliano anziché lenire. Altrettanto difficile a cancellarsi, tuttavia, è una sensazione, del tutto tangibile, di noia latente, che subentra al progressivo scentrarsi di un platter troppo lungo (quasi un’ora) e poco reattivo a stimoli esterni. Di nuovo voce e chitarra pizzicata in “Violence Is For Leaders”, sistri e sonagli a cavalcare l’onda impetuosa di “Passed Away” (persasi, per l’ennesima volta, in un’introspettiva semplificazione ad incastri), un sobrio Elliott Smith in maggiore in “The River” e le ombre del post rock in cui si tingono corde e atmosfere amniotiche di “Something In This House”. Non cambia più nulla, scosse ed andature si narcotizzano, l’encefalogramma perde vivacità, la ballata finale (“How You Killed Me”) non accentua abbastanza gli spigoli.
E in questa stanza, ça va sans dire, i visitatori tendono a trattenersi solo quanto basta.
Tweet