Elliott Smith
From a Basement on the Hill
Elliott Smith è uno di quegli artisti che oggi passano inosservati al grande pubblico e un domani verranno elevati a leggende. Storia vecchia. Già vista con tanti, troppi grandi geni musicali del passato. Basti pensare ai Velvet Underground o a Nick Drake. E proprio da quest'ultimo Elliott prende quella classe pura che gli ha permesso di porre le basi di una carriera straordinaria, iniziata nel 1994 con Roman Candle e interrotta purtroppo nel 2003 per il suicidio del cantautore, capace di elaborare perle come Either/Or, XO e Figure 8 prima di lasciarci questo album postumo che diventa il suo testamento musicale definitivo. Pochi artisti sono riusciti e riescono ad infondere nei loro pezzi quella dolcezza mista alla malinconia tipica del "mal de vivre" di poeti e musici, vecchi e nuovi: gente del livello di Kurt Cobain e Jeff Buckley, solo per rimanere agli anni '90.
From a basement to the hill è un album romantico, velato di una costante patina di tristezza . La voce di Elliott è come sempre incantevole e il pop rock che ne esce fuori è tanto genuino quanto sofisticato. E' difficile trovare punti deboli in questo lavoro che resta tra le migliori cose uscite nel 2004. Si parte con la trascinante coast to coast, molto orecchiabile ma anche delicata e sincera. Let's get lost è un pezzo acustico più vicino alle sonorità folk di Devendra Banhart e Wilco (ma si potrebbero anche scomodare i grandi maestri del passato: da Drake a Dylan passando per Young). Con Pretty (ugly before) si resta in un'atmosfera leggera, di quiete, favorita da una voce calda e sensuale che accompagna una melodia semplice ma efficace.
Don't go down è il capolavoro assoluto, una ballata formidabile che rasenta la perfezione e farebbe scorrere una lacrima anche al più rozzo scaricatore di porto.
Strung out again è una drammatica gara tra chitarra e voce in un'atmosfera che ricorda i tardi Beatles. A fond farewell prosegue sulla scia delle precedenti: accordi semplici ma magici accompagnati dal canto morbido che annebbia la mente di noi comuni mortali. King's crossing si basa su un coro di "anime svagate" accompagnato da un pianoforte solitario che introduce la storia cantata. Dopo il brano intermedio Ostriches & chirping arrivano tre pezzi folk di una bellezza impressionante: Twilight, a passing feeling e last hour. Ogni nota colpisce per la sua naturale intensità strappalacrime e la voce penetra nel corpo e arriva a toccare dritto al cuore. Sembra quasi che Elliott voglia narrare una favola ad un pubblico fatto di "vecchi bambini" come siamo tutti noi.
Dopo la stravagante ma pur sempre affascinante Shooting star dalle sonorità quasi noise arriviamo al momento più normale dell'album. Dico "più normale" perchè sarebbe ingiusto definirlo "il più basso" dato che i due brani sotto accusa (Memory lane e Little one), pur non raggiungendo quel qualcosa in più che è presente nel resto del disco, rimangono lo stesso due buone canzoni e non sono affatto due tappabuchi.
Comunque si torna subito in carreggiata e A distorted reality is now a necessity to be free è il finale migliore che l'ascoltatore potesse aspettarsi di sentire.
Le magie di Elliott finiscono qui. Un altro poeta se n'è andato e alla fine dell'ascolto un pò tutto quello che ci circonda sembra meno importante. Grazie Elliott
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