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R Recensione

7/10

Pure Bathing Culture

Moon Tides

È bastato leggere il nome dei Beach House per avvicinarmi a questo disco, lo ammetto. Devo confessare, però, che l’intenzione era quella di un risolino sarcastico (“Come si permettono, questi sbarbatelli, di innescare paragoni tanto sconsiderati? I Beach House sono i Beach House, vale a dire: intoccabili!”), più che di un apprezzamento compiaciuto. Pregiudizi? Ehm, sì.

E invece, molto presto, il risolino sarcastico ha lasciato spazio, sul mio volto, ad un’espressione di autentica beatitudine. Non potrei esprimermi in altre parole, visto che la proposta di questo duo di Portland - Daniel Hindman e Sarah Versprille all’anagrafe, già membri dei Vetiver - all’esordio sulla lunga distanza, dopo un EP omonimo che, a posteriori, mostrava già un discreto talento (si pensi all’incantevole Ivory Coast, lì contenuta), si fa forte di una carica spirituale che pervade ogni traccia. E se la cosa, di per sé, non rappresenta novità (si pensi alle “sacerdotesse” Legrand e Sandoval, solo per fare due dei nomi più rappresentativi), il fondere questo approccio quasi mistico ad un gusto non lontano dall’easy listening degli anni ’80, con tanto di arrangiamenti lustrati e patinati (si pensi al candido quasi-soul di Scotty), crea un contrasto interessante e, pur - o forse soprattutto - nella sua palese naïveté, sorprendente.

Prodotto da Richard Swift, membro degli Shins, l’album propone nove brani, tutti piuttosto vicini per forma e sostanza, che percorrono una strada già battuta in lungo e in largo (quella del setoso Dream Pop di trent’anni fa, con a capo i Cocteau Twins più zuccherosi), ma lo fanno con personalità e garbo. Le basi spudoratamente anni ’80, i sintetizzatori mai invadenti che creano un tappeto fumoso, le tastiere appena accarezzate e le chitarre in odore Sundays sono messe, allora, al servizio di canzoni che vertono sulle dolci melodie vocali della Versprille - dotata di una voce non particolarmente memorabile ma, in compenso, asciutta e precisa - e che sembrano volgere lo sguardo più alle lontane Scozia e Irlanda - non mancano riferimenti ad Enya (Only Lonely Lovers), quando non era ancora parodia di se stessa, o ai primissimi Cranberries (Seven 2 One) - che alla natia America, in considerazione di un gusto quasi “celtico” nel costruire atmosfere, allo stesso tempo, scintillanti e brumose.

Spetta a Pendulum (primo singolo estratto e manifesto programmatico dell’album, col suo attacco da casa sulla spiaggia, per l’appunto) inaugurare la scaletta, e di lì alla conclusiva Temples of the Moon (che incupisce gli umori e rallenta le velocità nella sua mescolanza di folk acquatico e andamento dreamy à la Julee Cruise) sarà tutto un fiorire di vocalizzi eterei, leggere variazioni melodiche e nostalgie a palate.

Una segnalazione particolare, però, sembrano meritarla la dolce Twins - nitida e luccicante, nella migliore tradizione Pop - e, soprattutto, Dream the Dare (apice dell’album, per chi scrive, e canzone tra le più belle dell’anno) che col suo incedere marziale da canto quasi religioso, sboccia in un ritornello, costruito tutto su assonanze e riprese, così perfetto che vorresti non finisse mai.

Un paio di brani (la già citata Seven 2 One o Golden Girl) non fanno che ripercorrere stilemi già tracciati in precedenza, aggiungendo poco o niente all’economia dell’album, così se la prima metà del disco è da colpo al cuore, la seconda metà supera di poco la sufficienza, nel suo tentativo - riuscito, tra l'altro - di fare un buon compitino senza rischiare nulla. Il risultato globale, per ora, è più che buono. Dovessero trovare un pizzico di coraggio in più e una maggiore autonomia estetica, potremmo sentirne delle belle. Il consiglio è di non perdersi questo primo assaggio - ideale per un mese di settembre fatto di spiagge spopolate (come quella della pensosa copertina) e languidi ascolti - e di restare sintonizzati: l’impressione è che il meglio debba ancora arrivare.

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target alle 23:54 del 11 settembre 2013 ha scritto:

Proprio moooolto Beach House, a metà tra "Devotion" e "Teen Dream", quando c'erano quelle basi ancora molto meccaniche e quella produzione un po' ovattata, da camera chiusa in un posto di mare. La differenza più grande è che ai Pure Bathing Culture manca la voce della Legrand (eddicipoco), anche se la cantante qua prova ogni tanto a riprodurla (come nell'apice "Dream the Dare"). D'accordo con il giudizio di Salvatore (è proprio vero: hanno molti tic melodici e 'stacchi' da easy listening '80, ed è forse la cosa che mi piace di più) e con l'immagine che evoca alla fine della recensione. Ottimo per questi giorni in cui rinfresca.

hiperwlt alle 12:18 del 14 settembre 2013 ha scritto:

davvero splendida questa "dream the dare"! Faccio mio il disco e ripasso a breve, Sal