R Recensione

9/10

Monks

Black Monk Time

"C’è una certa tipicità comune alla storia di molte rock’n’roll bands degli anni sessanta. Niente è tipico per quanto riguarda i Monks – la loro storia, la loro musica, la loro immagine. Erano un’aberrazione, della più gloriosa specie" con queste parole Lanny Kaye (responsabile della Rhino Records) descrive il quintetto americano di ex-marines di stanza ad Heidelberg – Germania, che nel lontano 1966 (Millenovecentosessantasei…!!!!) ci regalarono questo autentico capolavoro. Etichettarlo, oltre che SBAGLIATO e stupido, risulta qui una prova veramente ardua, quindi cercherò di darvi qualche “informazione/definizione” che possa solleticare la vostra curiosità.

 

Come detto i cinque sono militari congedati dal corpo speciale dei G.I. dell’esercito americano ed una volta decisi ad intraprendere la carriera musicale cambiano il nome del gruppo passando da The Torquays ad un ben più incisivo Monks… e visto l’acronimo scelto il passo successivo sembra inevitabile, completo sobrio rigorosamente nero con una cordicella bianca intorno al collo come cravatta ed il tipico taglio da monaco, che aveva trovato più di una qualche opposizione, iniziale, da parte di alcuni dei membri.

I primi passi (dopo essersi fatti le ossa suonando nei locali che circondavano la base militare) li muovono nei locali “in” come il Top Ten o lo Star Club del quartiere a luci rosse di Amburgo (la Reehperbahn), sei ore a sera durante la settimana ed otto nel weekend (stessa routine fatta qualche anno prima sugli stessi palchi da Beatles, Rory Storm & The Hurricanes e Jerry & The Pacemakers). Ma i Monks si vogliono affrancare dall’ondata di gruppi d’oltremanica che stanno spopolando in giro per il mondo (British Invasion…) o dalla furiosa scena garage esplosa nel loro paese natio, quindi compongono il loro set di cover deviate di Chuck Berry ed Eddie Cochran, surf music impazzita e sanguinari hyper-blues.

La voce di Gary Burger sembra quella (del non ancora) Captain Beefheart dopo un trattamento di psicofarmaci in manicomio ed i suoi riffs di chitarra sono vere e proprie rasoiate imbevute di napalm. Dave Day suona la sei corde come si suona una mitragliatrice ed il banjo elettrificato (!!!!) come un bazooka (per amplificarne il suono gli piazza due microfoni all’interno), mentre l’organo di Larry Clark a tratti sembra uscire da una chiesa sconsacrata, durante il Giorno del Giudizio. La sezione ritmica, formata da Roger Johnston alle percussioni ed Eddie Shaw al basso, suona potente e violenta, come l’invasione di Parigi da parte della Panzer Division tedesca durante la seconda guerra mondiale.

Il pubblico che assiste ad i loro spettacoli è, a dir poco, esterrefatto. <> ricorderà Burger di quel periodo. Black Monk Time suona, se possibile, anche molto più allucinato. Invettive contro il nemico <<Why do you kill all those kids in Vietnam / Mad Vietcong!/My brother died in Vietnam >> da Monk Time e deliri alcolici da “innamorato” <<I hate you with a passion, baby… But call me!>> da I Hate You!, sono gli argomenti preferiti da Burger perfettamente sublimati nel capolavoro Complication. Un’invettiva marziale contro tutto e tutti. Contro gli assassini (terroristi) che nel nome di Allah compiono mutilazioni ed omicidi, contro la dea Kali “puttana tentatrice” dell’anima dell’uomo, contro i Viet Cong… contro chi in nome di Dio manda i ragazzi in guerra a combattere tutto questo. Wow... se ne esce esausti dalla prima parte del disco. Ma i nostri, forse “commossi” dalle facce stranite degli spettatori ai loro concerti ne fanno tesoro e fortunatamente nella seconda parte esaltano maggiormente il “sense of humor” di cui erano dotati e che li porta a descrivere stati d’animo alterati da fiumi di vodka come in We Do Wie Du, allucinati conteggi alla rovescia in Blast Off! (che suona come un disco volante elettronico) o impossibili storie di una giovane alcolizzata di origine spagnola… Drunken Maria.

Un modo di comporre, eseguire e soprattutto registrare i brani che era del tutto inusuale per le curate produzioni americane ed inglesi, dove tutto doveva suonare ben bilanciato, equilibrato, insomma… perfetto. In Germania, questa “paranoia” viene surclassata dall’impatto che si vuole ottenere dal suono, un muro, grezzo, costruito con i mattoni di registrazioni in quasi presa diretta, senza troppi missaggi o pre e post-produzioni, così da essere estremamente diretto, reale e… intransigente. Pratica che diverrà metodo di lavoro anche nella nascente ondata di gruppi tedeschi, definita (volgarmente) Kraut Musik o (in maniera più appropriata) Kosmische Musik, di cui i nostri rimango i modelli… le guide.

 

Dodici piccole gocce di alcool corretto con agenti chimici compongono questo lavoro incredibile, spesso mal etichettato come garage (si limitasse solo a quello…). Ma il vinile prodotto dalla Polydor Germany non varcherà mai i confini teutonici, se non dopo più di un decennio, ed i nostri presto prendono altre strade (nel 1967, dopo il fallimento del progetto per un tour in Vietnam…!!!), tre di loro (Burger, Clark e Johnston) sospinti dalle mogli tornano negli States dove rientreranno in una vita normale (Larry Clark andrà in pensione come consulente della IBM). Seguiti qualche anno più tardi da Eddie Shaw, che diventerà editore e pubblicherà la bellissima autobiografia Black Monk Time a ricordo e divulgazione di quel periodo. Dave Day, invece, trascorre nove anni da eremita disperso da qualche parte nel cuore della Foresta Nera tedesca, prima di tornare a casa ed essere, sul finire del secolo, il responsabile della reunion (con disco annesso) dei 4/5 della band originale… ma questa, purtroppo è un’altra storia. Adesso…

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Voto degli utenti: 8/10 in media su 5 voti.
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Cas 9/10
REBBY 7/10

C Commenti

Ci sono 5 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Nadine Otto alle 15:22 del 16 febbraio 2007 ha scritto:

beat time

Complimenti per la recensione e per la scelta! Sono dei pazzi! Evviva la pazzia! "You're a monk, I'm a monk, we're all monks!"

Si vede che Amburgo è sempre un bel posto da cominciare...

Evviva la Reeperbahn!!!

DonJunio alle 18:02 del 18 febbraio 2007 ha scritto:

yeah

mai ascoltato questo album, ma lewis è una garanzia....

Cas (ha votato 9 questo disco) alle 14:57 del 5 ottobre 2007 ha scritto:

grazie a Julian Cope che me l'ha fatto scoprire...cazzo, album così non dovrebbero rimanere nell'ombra!!! disco geniale, pochi l'hanno superato nel 1966!

Mr. Cigarette Butt (ha votato 9 questo disco) alle 17:27 del 19 maggio 2009 ha scritto:

dad punk

I dead kennedys del '60!senza dubbio!sezioni ritmiche lanciate e chitarre come lamiere,e quella voce,wow!...che dire?un album da avere e amare!!!il vero suono punk non ha che origini da bands come MONKS,SONICS,COUNT FIVE,giusto per citare i più famosi ma non per questo meno ruvidi o potenti,proprio in stile punk77(?) ma 20 anni prima!!!FUZZ ON!

Utente non più registrat (ha votato 7 questo disco) alle 22:47 del 24 maggio 2020 ha scritto:

Cavolo, un garage-rock di gran levatura! Gli inserti d'organo più cazzuti dei sixties, chitarre rumorosissime, un fottuto banjo elettrico... va bè che parlo a fare, è un classicone