Who
Endless Wire
Non avrei mai pensato di trovarmi a recensire un album di inediti degli Who nel 2006 annus domini. Eppure eccoci qua. Ringraziamo (o insultiamo) il fenomeno decisamente triste delle reunion di band storiche che ultimamente per motivi sicuramente unicamente artistici (se vi stendete a terra ridendo per mezzora siete ok!) ci ripropongono ammuffite ammucchiate rugose per i nostalgici dei bei tempi andati. Ed ecco allora spuntare fuori Duran Duran, Who, Stooges e assai improbabili Doors (senza Morrison? Ma siamo matti?) e Queen (senza Mercury? No comment!) . Se si continua di questo passo non resta che aspettarci Beatles e Nirvana così si tocca definitivamente il fondo. Il parere del sottoscritto comunque non è ostile per pregiudizio, solo penso che bisognerebbe avere la dignità di non speculare su nomi gloriosi del passato per meri scopi commerciali. Anche in questo caso mi riesce difficile parlare di Who quando di fatto rispetto alla composizione originaria di quaranta anni fa non sono rimasti che due elementi (su quattro! Cioè la metà). E se poi i fantasmi si chiamano Keith Moon e John Entwistle non si può fare a meno di gridare allo scandalo. Non dico che Daltrey e Townshend non abbiano il diritto di riproporre progetti assieme ma che abbiano la dignità di cambiare nome al gruppo. Vabbè superato il piccolo sfogo personale passiamo al lato più concreto: la musica. Non penso che i Who abbiano bisogno di presentazioni quindi salto questa fase. Ad ogni modo se ci dovessero essere giovani leve del tutto ignoranti sull’argomento consiglio caldamente di ascoltare la discografia che va dal 1966 al 1973, o se proprio non avete tempo-voglia perlomeno tre album fondamentali della storia del rock come Tommy, e Quadrophenia e Who’s Next. Inutile, anzi più che inutile addirittura dannoso scoprire questo gruppo dall’album appena uscito.
Anche se…
Anche se il suddetto album non è poi così male. Nonostante tutti i presupposti positivi per una stroncatura primordiale infatti mi sono dovuto ricredere. Endless wire è un album che sorprende per la sua attualità, per la sua vivacità e soprattutto per la sua qualità. Il grosso rischio di cadere nelle ripetizioni dei suoni tipici degli anni passati era decisamente alto. E invece gli Who sono riusciti a superarlo. Gli echi più netti del passato ci sono e non si fanno passare inosservati. Fragments e fragments of fragments sono molto più di una autocitazione di Baba o’Riley. Però c’è di più. C’è l’urlo di Daltrey che apre Mike post theme, un urlo che dice molto: ci ricorda che loro sono ancora qua e si sentono in grado di fare meglio di molti gruppetti insulsi che ci sono in circolazione. I maestri vogliono far capire che dal 1982 (anno dell’ultimo studio album) ad oggi non sono stati con le mani in mano ma hanno seguito la scena musicale riuscendo così a portare molti elementi nuovi all’interno di un sound collaudato nel tempo. In the ether è l’esempio più sintomatico di tutto ciò: nessuno direbbe mai che è un pezzo degli Who, neanche sotto la minaccia di un colpo di pistola. Qui si vede la poliedricità di un Daltrey scatenato che decide di arrocare ulteriormente la vecchia voce per giocare a fare il miglior Tom Waits nel pezzo forse più commovente dell’album. Il duo poi sa che bisogna alternare sapientemente ritmi lenti e veloci e così si passa dalle vibranti Black widow’s eyes e Two thousand years alla sussurrata God speaks of Marty Robbins, passando per i ritmi classicamente Who di It’s not enough per poi tornare alle delicatezze di You stand by me.
Quello che segue è una mini-opera intitolata Wire & Glass (che ha anticipato l’uscita dell’album) e che riporta alla memoria la struttura del concept Tommy. La storia che viene narrata esce dalla bocca di una vecchia rockstar immaginaria di nome Ray High. Le tematiche di particolare benevolenza per internet, le utopie di una fraternità mondiale e della musica come soggetto di una pace universale si scontrano nella conclusiva Mirror door con un tragico omicidio. I pezzi hanno una durata media di due minuti e la continua contrapposizione di stili e generi determina una grande fluidità e vivacità all’opera.
Devo ammettere che non è stato facile scrivere di questo album. Tante cose andrebbero dette e tanto tempo andrebbe soprattutto dedicato ad ascolti sempre mirati a decifrare i mille dettagli che animano questo gioiellino.
Nella speranza che tutto questo pattume che ho scritto qua sopra sia d’incitamento per andare a procurarvi al più presto Endless Wire non mi resta che augurarvi un buon ascolto. L’album merita.
Fidatevi.
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