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R Recensione

6/10

Black Rebel Motorcycle Club

Specter at the Feast

Sono passati più di dieci anni da quel fatidico 2001, in cui si parlò di (ennesima) rinascita del rock. I protagonisti di quella stagione furono gli straordinari Strokes dell’omonimo debutto, capaci di rileggere gli stilemi della wave newyorchese con una ventata di freschezza tipica dell’indie rock anni 90, e i più esperti White Stripes, che con i fendenti punk-blues di “White Blood Cells” colsero i frutti dopo anni di dura gavetta nell’underground, preambolo alla loro apoteosi di due anni dopo col celebratissimo “Elephant”. E poi c’erano loro, i Black Rebel Motorcycle Club, band californiana che sembrava uscita da un remake de “Il selvaggio”, con immaginario di giubbotti in pelle, motociclette potenti e capelli al vento.

La loro “Whatever happened to my rock and roll” fu forse l’inno più clamoroso di quell’annata, contenuta all’interno di un disco perfetto, in bilico tra ruvidezze garage, echi shoegaze à la Jesus And Mary Chain e speziature psichedeliche da California anni '90. Da allora il gruppo capitanato da Peter Hayes è rimasto in piedi tra esiti alterni, pagando anche pegno al ritorno alle radici con il buon pastiche roots-rock di “Howl” del 2005, ma senza mai  purtroppo ritrovare la magia dell’esordio ( come del resto gli stessi Strokes), pur rimanendo una granitica certezza dal vivo.

Specter at the Feast” è l’ennesimo ritorno in pista del terzetto, che sembra non discostarsi particolarmente dalle recenti fatiche, all’insegna di un robusto e impetuoso rock and roll occasionalmente addolcito da momenti più riflessivi, ma che paga dazio ad una durata francamente eccessiva ( quasi un’ora), come ad esempio nella sfiancante power ballad “Lose it yourself” che sfiora i nove minuti o nella rarefatta “Returning”,  caratterizzata da un crescendo epico/enfatico alla Coldplay ma senza l’astuzia melodica che contraddistingue Chris Martin e i suoi.

Le danze sono aperte da un vibrante numero psych-rock, forte di una melodia degna degli Stone Roses più ipnotici (“Fire Walker”), stesso canovaccio sentito nell’ispida “Rival”. Gli apici sono probabilmente la crazyhorsiana “Sell it”, guidata dal basso incalzante di Robert Been, la graziosa e di presa immediata  “Funny games” e l’intensa “Let the day begin”.

Nulla di male e un lavoro onesto, ma aspettiamo che tra qualche anno un altro gruppo di ventenni scapigliati ci scuota riproponendo l’amletico ed eterno quesito: cosa diavolo è successo al rock and roll?

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Voto degli utenti: 5,6/10 in media su 5 voti.
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zagor 5,5/10

C Commenti

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bill_carson (ha votato 6 questo disco) alle 16:47 del 24 marzo 2013 ha scritto:

mi dispiace che una band così venga ormai sbertucciata da ogni parte solo perchè non allineata alle tendenze più trendy- continuano a fare la loro cosa degnissimamente. non sono fuoriclasse e non lo sono mai stati, ma ci sanno fare e in ogni disco piazzano 2-3 brani decisamente sopra la media.

benoitbrisefer (ha votato 5,5 questo disco) alle 15:49 del 25 marzo 2013 ha scritto:

Amati molto gli esordi, apprezzati anche dopo la svolta blues-oriented, ma francamente quest'ultima fatica mi lascia alquanto perplesso e freddino... Non mancano, come giustamente dice IraKaplan, i 2-3 pezzi più che convincenti, ma "tutto il resto è noia..."

zagor (ha votato 5,5 questo disco) alle 21:12 del 25 marzo 2013 ha scritto:

Concordo sul fatto che dal vivo abbiano ancora una marcia in più, ma a parte un paio di eccezioni anche il songwriting ormai va col pilota automatico.