R Recensione

9/10

Icarus Line

Black Lives at the Golden Coast

Non si può parlare degli Icarus Line (per tutta la durata dell'articolo si fingerà che il tanto disprezzato "the" non esista) senza ricordare quel gioiello che fu il loro esordio Mono. Era il 2001 e il new rock era appena un abbozzo, una definizione buttata lì per circoscrivere il successo di una manciata di dischi davvero meritevoli (Is this it degli Strokes, White blood cells dei White Stripes, Lack of communication dei Von Bondies e pochi altri). Non si poteva ancora immaginare che il movimento avrebbe portato alla ribalta anche gruppi imbarazzanti e scadenti come Kings of Leon, Jet, Thrills nonché buona parte della produzione di Libertines, Datsuns, Vines e via dicendo.

Bene, mettiamo subito le cose in chiaro: gli Icarus Line possono rientrare nel new rock come i Beatles nel punk. Troppo preponderante l’attitudine punk-hardcore (con tanto di screamo) per parlare di semplice rievocazione di temi 70s, nonostante una forte propensione a un garage-rock low-fi che non poteva riportare alla mente i Comets on Fire. Qua e là affioravano pure ricordi dell’esordio dei Dead Meadow… Due nomi che (nonostante le ampie differenze stilistiche), a parere del sottoscritto, sono oggi tra i veri portabandiera dello spirito rock 70s nella sua versione più dura e melodica. Altro che new rock!

Penance soirée (2004) cambiava le carte in tavola e mostrava capacità fuori dal normale: l’elemento hardcore veniva smorzato mentre maggiore spazio era dato ai momenti melodici nell’ottica di un rallentamento generale dei ritmi. Un certo gusto per la decadenza sembrava affiorare in un cantato ispirato ora a Jagger, ora a Iggy Pop, mentre la musica sembrava subire parzialmente l’influsso dei Jesus and Mary Chain (o forse dei Black Rebel Motorcycle Club?). Penance soirée restava un disco notevole, pur leggermente inferiore a Mono.

La prima immagine di Black Lives at the Golden Coast non è purtroppo delle migliori. Alludo alla copertina che mi riporta alla mente una delle pose oscene di quel rockettaro comico da due soldi di nome Andrew Wk. Per fortuna il paragone finisce qua e si può partire con l’ascolto dell’ennesima mini-summa rock del gruppo guidato dal frontman Joe Cardamone.

Si parte con Black Presents, un post-core (Jesus Lizard e Big Black) molto sporco, ai limiti del viscidume. Fshn cambia subito registro e si imposta su un leggero noise tipico dei primi Jesus and Mary Chain, la cui malinconia irresistibile si ripercuote anche in Slayer, capace di assimilare anche le melodie degli Smiths e la leggera psichedelia degli Echo and the Bunnymen. La monotonia sentimentale dei Jesus and Mary Chain è rintracciabile anche nella prima parte di Amber alert, prima che il pezzo esploda in un trascinante hard-rock alla Soundgarden (riff irresistibile e acuto degno del miglior Chris Cornell).

La rielaborazione è costante e non poteva trascurare il garage-rock low-fi dei primi 70s che tanto ci piace: Golden rush, Sick bitch e Black lives at the golden coast sono le canzoni che ci saremmo aspettati di trovare in the Weirdness, l’album dell’odierno ritorno degli Stooges. Purtroppo Iggy Pop non è riuscito a recuperare degnamente il sound esplosivo di Fun House, cosa che invece sembra essere riuscita molto bene ai ragazzi di Hollywood.

Proseguendo si sbatte in Gets paid, riuscitissima rievocazione del pop distorto dei tardi Velvet Underground. E tra scorie post-punk di buon vigore (Committed to extinction) e sfuriate alla Jane’s Addiction dei tempi d’oro (Frankfurt smile) sembra davvero di aver trovato uno degli album perfetti dell’anno, se non fosse per quel fastidioso calo di ispirazione che è Victory gardens, in cui purtroppo sembra di sentire gli ultimi U2 nel pieno della loro appassionata sclerosi malinconica da due soldi. L’epicedio riesce a far dimenticare questi dettagli: Kingdom è una cavalcata mirabile che odora di tesoro aureo: inizia in stile Battles (sentire soprattutto l’attacco della batteria) in un clima di psichedelia acida, ma i suoni non restano mai fissi e la capacità di Joe Cardamone di cambiare timbro è impressionante: passa dal tono spettrale di Angus Andrew (Liars) all’esuberanza di Perry Farrell (Jane’s Addiction) a una decadenza tipica del Robert Plant ultimo periodo, il tutto mentre la jam sonora imperversa tra ritmi hard-rock, psichedelici, funk e progressive, fino alla classica esplosione finale.

Tutto questo ci basta per conclamare alle masse la grandezza degli Icarus Line: la cui dimenticanza in questi anni da parte non solo del pubblico (eh vabbè) ma addirittura della critica specializzata ha qualcosa di sconcertante. Tre dischi spettacolari uno dietro l’altro sono molto più che semplici indizi, sono la prova che si è di fronte a un gruppo imponente, capace di pescare a piene mani da un passato quanto mai variegato con una facilità davvero irrisoria che quest’anno era capitato, a chi scrive, di ritrovare solo in King for a day di Bobby Conn.

L’eclettismo rétro non è sicuramente la risposta per il futuro del rock. Continuo a credere che questa sia in mano a gente come i Liars. Tuttavia gruppi come gli Icarus line sono indispensabili; forse non sono originali, ma sembrano uno dei pochi sani alimenti di cui cibarsi per sopravvivere all’ondata di sterco che cercano di farci ingoiare quotidianamente le radio, Mtv, Nme e le Majors.

V Voti

Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 3 voti.
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gogol 6/10
REBBY 6/10

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