R Recensione

8/10

Six By Seven

04

The scientists originally thought that everything [in the universe] would eventually come back in on itself and implode, but what's actually happening is that they are accelerating away at a rate of Six By Seven."

È con queste parole che il cantante e chitarrista dei Six By Seven spiega l’origine del nome della band. Ma più che nell’esplorazione degli infiniti mondi dello spazio esterno, i SBYS hanno preferito avventurarsi, attraverso la musica e le liriche,  nelle pieghe dell’inner space dove il flusso di coscienza vaga fra amore ed angoscia, desiderio e disperazione. Il gruppo, sorto a Nottingham nei primi anni ’90, incentrato sulla coppia Chris Olley (voce e chitarra) e James Flower (tastiere), lo ha fatto servendosi di un drone-rock, talvolta morbido e soffuso, talvolta rumoristico e aggressivo, debitore al suono di bands con Jesus And Mary Chain, My Bloody Valentie, Sonic Youth ma anche alla scena shoegaze o all’insegnamento dei Velvet, dei New Order e perfino della prima ondata punk.

Del 1998 è il primo disco, “The Things We Make” ottimo esordio pieno di riverberi shoegaze, dolcezze abrasive via JAMC e MBV, in cui prevale il lato introspettivo e malinconico della band fino al  commiato quasi sussurrato di Comedown (“I’m so bored, I’m so tired. We got lost”). Il secondo album (“The Closet You Get” (2000)), è invece decisamente orientato verso un suono più nervoso e abrasivo, più veloce e noise che, alle influenze già riscontrate nel precedente lavoro, aggiunge quelle di Sex Pistols, Clash, primi Cure e addirittura dei Blur di “13”. È un’opera convincente e a tratti entusiasmante. Non altrettanto convincente riesce ad essere invece il successivo “The way I feel today” (2002) non tanto per la qualità dei singoli brani (spesso veramente ottimi, come la splendida “IOU Love”, che ha avuto anche un buonissimo riscontro commerciale) quanto piuttosto per una certa difficoltà nel riuscire ad amalgamare i tratti più sognanti ed estatici con quelli più corposi e corrosivi, tanto che l’impressione è quella di una rigida separazione, quasi a compartimenti stagni, dei due tipi di sonorità che non riescono mai veramente a legare fra loro.

Che qualcosa non abbia funzionato come avrebbe dovuto è dimostrato dal fatto che i SBYS si ripresentano dopo altri due anni con un cambiamento di organico e di etichetta (ora di loro stessa proprietà) e con un approccio minimale tanto nel titolo, “04” (l’anno di uscita del disco), che nella grafica, affidata ad una monocromatica copertina rossa con il nome della band e il titolo in verde (e che personalmente mi ricorda tanto quella del  primo lavoro dei Talking Heads, “77”).

Ma è soprattutto nel suono che finalmente il gruppo raggiunge la sua maturità stilistica: in esso i SBYS fanno confluire tutte le influenze precedenti, unitamente ad una nuova sensibilità elettronica che rimanda a tratti agli “sperimentalismi” Radiohead di “Amnesiac” e “Kid A”, arrivando così a prendere possesso di una precisa identità formale, di una cifra stilistica originale, omogenea e immediatamente riconoscibile. Morbide ritmiche elettroniche introducono l’iniziale “Untitled”, poi chitarre filtrate e la voce di Chris ci portano su territori cari ai Jesus And Mary Chain; ancora la band dei fratelli Reid aleggia sull’atmosferico avvio di “Sometimes” canzone che si sviluppa fra caos velvettiano e sperimentalismi Radiohead. “Ready For You Now”è uno dei vertici del disco e dell’intera produzione dei SBYS, accattivante nel suo intro di tastiere che esplode ben presto in una cavalcata anthemica in cui si fondono echi Spacemen 3 e New Order (e la versione presente su “Left Luggage at The Peveril Hotel” è forse ancora più convincente e coinvolgente).

Orientaleggiante e colma di innato senso lirico è “Ocean”, fra Slowdive e My Bloody Valentine, caratterizzata da quel malessere esistenziale che è tratto essenziale della poetica SBYS (“There’s a storm cloud covering me”). Il compatto sviluppo di  “Say That You want Me” ha andamento bluesy (con tanto di armonica a bocca) che richiama ancora una volta i Jesus and Mary Chain e i Velvet dell’album omonimo. Il breve intermezzo elettronico di “Lude 1” introduce il meraviglioso trittico di “There’s a Ghost”, florilegio di riverberi ed echi, ad un tempo solenne e dolcemente malinconico, “Catch The Rain”, energica  pop-rock song , sostenuta dalla efficacia lirica della voce di Olley e da un ritornello di immediata memorizzazione, ed il singolo “Bochum (Light Up My Life)” altra cavalcata trascinante che rimanda alle pagine migliori dei Ride e dei New Order. Dopo tanta corsa senza respiro è il momento di tirare il fiato: ci pensano le conclusive “Lude 2” e la lunghissima (oltre 10 minuti) “Leave Me Alone” che ci portano dentro atmosfere più rilassate, fra classicismo ed elettronica, dove il richiamo ai Radiohead (anche nel cantato di Chris Olley) si fa davvero stringente.

“04” è stato dunque album di svolta per un gruppo che nel giro di meno di due anni ha pubblicato altri tre splendidi dischi (e proprio dalle due raccolte di outtakes “Left Luggage At The Peveril Hotel” (2004) e “Club Sandwich At The Peveril Hotel” (2006) vengono i momenti migliori), ma che si è improvvisamente sciolto all’inizio del 2006. Tuttavia le ultime notizie ci danno nuovamente intenti a collaborare Olley e Flower, autori, come SBYS,  di un nuovo lavoro reperibile solo in rete, “If  Symptoms Persist Kill Your Doctor”, che tuttavia appare lontano dalle pagine migliori del gruppo di Nottingham.

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

otherdaysothereyes (ha votato 8 questo disco) alle 17:35 del 26 gennaio 2009 ha scritto:

Sfortunati e sottovalutati i six by seven. Disco di rara bellezza e loro vertice. Nient'altro da aggiungere.