R Recensione

5/10

Gore Vidal

Il Divano Rende Sterili

«Luna tenera e brina sui campi nell’alba / assassinano il grano»

Cesare Pavese, Gente c’è stata 

Sono seduto in una panda costruita nel 1994, una Euro 0 che se mi vedono in centro mi sparano. I vetri appannati da una pioggia calda e improvvisa che ricorda la crudeltà di Aprile, i tronchi gonfi di una umidità meschina, le colline che franano stropicciandosi dietro le schiene, come fantasmagorie scricchiolanti di una casa decrepita.

Ho sullo stereo Il Divano Rende Sterili dei Gore Vidal (Fabio Capella, Loris Spanu, Ulisse Moretti, Davide Versio e Enrico Di Palma). Con la mano straccio un brandello di fiato condensato dal vetro di sinistro del guidatore. C’è un bel po’ di collina in questo demo/mini-disco: cinque brani di bruma spessa e lattea delle Langhe e anfratti color notte del Roero. E non solo perché due dei cinque componenti del gruppo torinese provengono da Alba (Davide e Enrico), ma perché molto di quello ascolto affonda in una "estetica collinare" ed una nostalgia ferina del maggese, dei profondi pleniluni del Piemonte sudoccidentale: «colline che riempiono il cielo e la terra con le linee scure dei fianchi, lontane e vicine», se Pavese ce lo permette. E di sicuro, perché il primo ed immediato rimando de Il divano rende sterili corre dritto ed impertinente verso il cuore della Granda, nella splendida ed isolata Cuneo narrata dai fluidi vocali di Cristiano Godano e soci.

Ci sono gruppi urbani ed altri schiettamente provinciali. Per i primi servono soltanto le punte più avanzate del panorama internazionale, suoni che cancellino il retaggio peninsulare ad ogni costo, beat che non perdonino poeti e marinai, maschere elettroniche a volte così esibite da essere parodie di se stesse. Gli altri invece tentano di raccontare la perifericità del nostro paese dall’interno del suo cuore essenzialmente marginale, le sue endemiche insoddisfazioni e piccole lotte, i desideri troppo grandi e le palingenesi mancate o dannatamente distanti.

I Gore Vidal non si vergognano di appartenere a questa seconda e - come ogni etichetta feroce – categoria. E neppure nascondono la loro densa traspirazione di rock italiano, figlia di un contatto prolungato con la musica dei Marlene Kuntz in primis, poi a seguire Afterhours, Verdena - ma in pillole -, PFM e, soprattutto, la strada aperta dalla voce e dalla pulizia armonica di Marco Notari – non a caso piemontese e di Asti pure lui - cui i Gore Vidal sembrano tributare l’influenza più marcata.

Si comincia così un viaggio minimo in un rock elaborato e profondamente progettato secondo sonorità calde ed avvolgenti, a tratti intimiste e viscerali, altre sopraffatte da un senso di perdita malinconica e tiepida introspezione. Il tratto cantautorale scivola quasi tutto nella splendida voce di Fabio Capella, frontman e "spirito arrangiatore" del gruppo, mentre le linee melodiche restano ancorate a chitarre saggiamente distorte alla Impressioni di settembre coverizzata dai Marlene.

Eva, prima e best track de Il divano rende sterili, fondativa e apertamente caratterizzante tutta la demo, apre come le migliori canzoni di Manuel Agnelli, rifiutando le ruvidità del milanese per un groove più controllato, ma altrettanto esplosivo. Colpiscono le pause quasi silenziose all’interno di un pezzo altrimenti violento. Qui la voce e i cori si impossessano della narrazione musicale creando effetti chiaroscurali improvvisi, da fotografia sovresposta. Eva, esattamente come noi che ascoltiamo, assapora la mela proibita con un misto di sfida e inquietudine, perché «vuole vergognarsi e sentirsi nuda». Allora «affonda i denti» e decidere di scegliere per sé, scagliandosi nell’oblio di un Aut Aut malcelatamente kierkegaardiano e avventurosamente rimbaudiano: «La mia giornata è finita. Lascio l’Europa. L’aria di mare mi brucerà i polmoni, i climi perduti mi conceranno».

Così La Ballata di Loris, che in verità di ballata ha solo il sapore arpeggiante iniziale, alterna bianchi e neri concedendosi ottimi soli di chitarra ben settata. Tutto cade ed Ahi ahi ahi, hanno una voglia vorace di apocalisse, corsa e distruzione. Ma sono tragedie da interno borghese e piccoli drammi da camera molto ben orchestrati in cui compaiono stralci di lacrime sintetiche e piccole porzioni di schitarrate epiche rubate timidamente dai Verdena e, a salire, dai Muse. , prima e best track de Il divano rende sterili, fondativa e apertamente caratterizzante tutta la demo, apre come le migliori canzoni di Manuel Agnelli, rifiutando le ruvidità del milanese per un groove più controllato, ma altrettanto esplosivo. Colpiscono le pause quasi silenziose all’interno di un pezzo altrimenti violento. Qui la voce e i cori si impossessano della narrazione musicale creando effetti chiaroscurali improvvisi, da fotografia sovresposta. Eva, esattamente come noi che ascoltiamo, assapora la mela proibita con un misto di sfida e inquietudine, perché «vuole vergognarsi e sentirsi nuda». Allora «affonda i denti» e decidere di scegliere per sé, scagliandosi nell’oblio di un Aut Aut malcelatamente kierkegaardiano e avventurosamente rimbaudiano: «La mia giornata è finita. Lascio l’Europa. L’aria di mare mi brucerà i polmoni, i climi perduti mi conceranno».

La demo conclude in tono minore raccogliendosi attorno a Maledizione, che tradisce la sua natura acustica e autoriflessiva anche dal sottotitolo (Intìma). Qui l’elaborazione rock si arricchisce di un arabesco di suoni campionati e corde metalliche su cui svetta protagonista la voce di Fabio Capella, trascinante e golosa.

Brucia l’ultimo sole dietro una schiuma di nuvole mentre finisco di scrivere. Dei Gore Vidal mi resta come un sapore di nespola e prato bagnato. E sempre le curve immote e sensuali dei colli piemontesi, i paesi arroccati come pennellate sui crinali e un albero di cachi senza foglie in controluce.

C’è talento e voglia di fare in questo gruppo, una forte volontà di comporre e approfondire melodie e suoni oltre la cortina di ferro di una musica italiana che, soprattutto nelle nuove leve, rischia di esaurirsi ad una superficialità ben patinata, o ad una dipendenza di ispirazione dai soliti noti. Mancano ancora un’autentica voglia di rivoluzione, un’immersione nella parte più irrazionale e divertita della musica e un po’ di sano cazzeggio sdrammatizzante. Perché l’effetto totale de Il divano rende sterili (gran bel titolo e copertina), tende alla lepidezza e all’eccessivo labor limae, distraendo, erroneamente, dal lungo lavoro e dalle ottime idee che lo sostanziano. D’altra parte, come gli stessi Gore Vidal scrivono nel loro primo brano, Eva deve «mordere la rivoluzione». Un poco di rischio in più e vedremo nascere qualcosa di buono. Se non ottimo.

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