Verdena
Requiem
Ci si cominciava a chiedere che fine avessero fatto i Verdena dopo quello splendido Suicidio Del Samurai di tre anni fa che li aveva consacrati definitivamente come una tra le migliori rock-band italiane. E finalmente troviamo la risposta. Per Requiem i Verdena tornano ad essere un power-trio come dio comanda, abbandonando per strada il tastierista Fidel che in effetti non aveva lasciato ricordi indelebili nell’immaginario collettivo.
Le canzoni: quindici. Tante, si direbbe. In realtà almeno quattro sono intermezzi musicali ben caratterizzati: Marty In The Sky apre il disco con lo scoppio di una bomba e il clamore che ne consegue. Fin troppo facile intuire la metafora dell’album che provoca il botto. Meno allegorici gli altri tre “intervalli”: ritmo tribale per Aha, atmosfera cosmica per Opanono, semplice melodia per Faro.
Ma perché continuare a nascondersi dietro a queste inezie che non dicono nulla di rilevante?
E allora diciamolo: che i Verdena se ne sono usciti con un altro ottimo disco, uno di quelli che bastano due-tre ascolti per capire che vale davvero, che non è una bufala del momento. Che canzoni come Non Prendere L’acme, Eugenio, Isacco Nucleare e Il Gulliver non escono tutti i giorni nel depresso panorama musicale italiano.
È vero, i Verdena non hanno inventato nulla, assolutamente nulla. Questo è ormai un dato di fatto inequivocabile. E anche Requiem non offre nuove strade da percorrere alla musica contemporanea, ci mancherebbe. È però sicuramente un bel segnale di vita per il rock nostrano. Soprattutto per il fatto che il gruppo si avventura in territori musicali diversi dal solito, confermando la tendenza già mostrata nel precedente album di abbandonare le semplici canzoncine dai toni eccessivamente morbidi (qui rimane solo la tenera Trovami, un modo semplice per uscirne) e di evolversi verso un rock più sporco, lascivo e distorto.
Hard rock ma non solo, perché aldilà dei riff pesantissimi di Don Callisto e Il Caos Strisciante si rimane soprattutto sorpresi dalle sonorità post-stoner che traspaiono un po’ ovunque. Ascoltando brani come Isacco Nucleare, Canos, Was? e il singolo Muori Delay sembra proprio che Ferrari e compagni si siano fatti una scorpacciata della discografia dei Queens of the Stone Ages e poi abbiano tentato di imitarli. Il confine tra rielaborazione e plagio è molto sottile, e se optiamo per la prima opzione è perché comunque anche in questi brani traspare un’acquisita maturità compositiva e un’attitudine decadente e cupa tipica della band bergamasca.
Stupisce soprattutto il fatto che li avevamo lasciati ancora con l’etichetta di “Nirvana italiani” e li ritroviamo più eclettici, capaci di aumentare le dosi di psichedelia (a sprazzi in mezzo al wall of sound di Non Prendere L’acme Eugenio e nella lunga cavalcata di Sotto Prescrizione Del Dott. Huxley) e di fonderla con impreviste tendenze progressive le quali traspaiono nella splendida semi-ballata Angie e soprattutto nella coraggiosa Il Gulliver: dodici minuti di continui cambi di ritmo e riff devastanti in cui Ferrari alterna lingua italiana e inglese.
Quasi stupisce di trovare anche un brano interamente acustico: un’eccezione in mezzo a un disco possente, cattivo, a tratti incazzato. Una conferma importante. E forse anche qualcosa di più.
Tweet