Marlene Kuntz
Uno
Quello che stanno facendo i Marlene Kuntz è una delle cose più belle e coraggiose che un amante della musica possa osservare. Allo stesso tempo però quello che stanno facendo i Marlene Kuntz è una delle cose più inaccettabili che un amante della musica possa sopportare.
Tranquilli, non ci siamo dimenticati il principio logico di non contraddizione, semplicemente cercavamo di rendere in maniera efficace l’ambiguità (o meglio la netta ambivalenza) di sentimenti e emozioni che provo nei confronti dei Marlene odierni.
Non si riesce a non amarli i ragazzi di Cuneo perché dopo più di dieci anni di carriera leggendaria (perlomeno guardando allo scenario rock italiano) il gruppo non si è venduto e ha trovato il coraggio di cercare nuove strade, di non fossilizzarsi sul suono “sonico” classico che gli avrebbe probabilmente garantito facili successi con dischi del calibro di Che cosa vedi. Non si riesce a non amarli perché chiunque ami il rock e sia un minimo patriottico non può non godersi due capolavori “internazionali” come Catartica e Il Vile. Allo stesso tempo non si riesce a non odiarli un po’ i Marlene Kuntz. Ascoltando Senza peso, Bianco Sporco e questo Uno non si riesce a pensare che la direzione presa dal gruppo sia bellissima, intelligente, inevitabile forse, però terribilmente meno proficua, quasi inguardabile rispetto agli sfolgoranti inizi di carriera. Difficile digerire il passaggio dal devastante noise-rock degli esordi al raffinato songwriting odierno in cui il suono è sempre più pop e preponderante è la produzione lirico-poetica dei testi di Godano, che di fatto oscura musicisti straordinari come il chitarrista Tesio e il batterista Bergia (per non parlare dello storico bassista Maroccolo).
Il S-Low Tour era la prova incontrovertibile che il percorso di “addolcimento” del sound fosse ormai irreversibile. Arriviamo così a Uno, titolo che fa pensare ad una ricerca assoluta dell’essenziale, dell’unità ultima, la quale forse proprio per questo arriva ad esulare dalla musica e sconfinare nell’arte vera e propria.
Quel che balza agli occhi è che non siamo più di fronte a canzoni ma a poesie. Le strutture sonore sono ridotte all’osso e ampio spazio è concesso allo stile vario di Godano che spazia tra toni romantici (Canto, 111, Canzone sensuale), ipnotici-eterei (Musa, Stato d’anima), cavernosi (Fantasmi), e che in generale assomiglia sempre più a un cantastorie (La ballata dell’ignavo) con tendenze da poeta-profeta. Sull’effettivo valore dei testi di Godano si può discutere parecchio ma il sottoscritto nota che uno dei motivi per cui l’album sembra crescere ascolto dopo ascolto è proprio l’assimilazione progressiva delle liriche.
Il grosso limite di Uno è però per l’appunto di mettere in secondo piano la musica vera e propria che diventa un mero accompagnamento al trionfante Godano. Una musica “discreta” che troppo spesso viene volutamente messa in second’ordine e solo raramente trova modo si sfogarsi appieno. Inoltre non si riesce a rimanere mai del tutto soddisfatti dai singoli brani. Canto è eccessivamente permeata di pathos e la mancanza di mordente si fa sentire. Il ritornello vocale di Musa è semplicemente brutto e piatto e non è riscattato neanche dalle scorie noise del finale. 111 è invece molto interessante sia per la violenza verbale e sonora che per la struttura più complessa capace di variare ottimamente timbri e stili creando un effetto claustrofobico. Canzone ecologica è un raffinato pop d’autore che riesce a mantenere un’andatura fresca.
L’oscura Fantasmi stupisce per l’aggressività con cui attacca indole e udito con un rabbioso finale low-fi d’altri tempi. Pur maestosa, troppo epica e iper-arrangiata è La ballata dell’ignavo, quasi un salmo laico di una profondità comunque notevole. Abbracciami sfrutta una splendida chitarra d’accompagnamento ma rimane la sgradevole sensazione di un brano fisso dalla struttura sonora prestabilita e statica. Sapore di miele e Canzone sessuale si prestano bene per un confronto significativo: la prima propone allusioni sessuali esplicite con un ritmo tirato ma privo di profondità, ciononostante la sua energia convenzionale ma ruvida è preferibile alla scarna e soave poesia della romantica Canzone sensuale (che si riscatta solo parzialmente nel finale con uno spendido assolo). Prese interamente tutte le canzoni presentano piccoli difetti, imperfezioni che poi vanno a pesare sulla forma generale. È così anche per Negli abissi tra i palpiti (dai cori troppo marcati e dal ritmo sfuggente) e per il brano omonimo Uno, insipido nel cantato e scontato nel ritornello barocco. L’unico vero gioiellino del disco è Stato d’anima in cui riesce finalmente l’operazione di fondere melodie pop, liriche nichiliste, cantato malinconico e accompagnamento sinfonico ben equilibrato. Tutto funziona alla perfezione e il pezzo riesce ad appassionare con un intimismo drammatico e una serie di preziosi arrangiamenti.
Tanti, troppi difetti ha però Uno. Troppo lungo il disco (un’ora) e troppo lunghe le canzoni, ulteriormente appesantite dai pochi cambi di ritmo. Le liriche sono spesso eccezionali ma talvolta un po’ pretestuose e comunque quasi sempre la musica non è all’altezza della penna letteraria.
Bisogna ammettere però che mentre l'impatto iniziale è traumatico Uno è un album che cresce lentamente con gli ascolti, che svela le parti migliori di sé con la parsimonia di una fanciulla vergine al primo appuntamento amoroso. E l’amore è uno degli argomenti più affrontati da Godano, tanto da fargli chiudere l’album con queste drammatiche parole: “Non ho mai cessato di amarti ma non riesco a baciarti”. Paradossalmente è la stessa cosa che viene di pensare degli attuali Marlene Kuntz.
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